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Andreotti, Cossiga, Moro. Ognuno ha il suo stile, nel gestire le spie. Andreotti ama passi prudenti e sghembi. Scarta, se può, le prove di forza. Procede, sin dai primi passi all'UzC, per carsici percorsi.
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Moro – chi l’avrebbe detto? – sul palcoscenico dell’intelligence italiana della prima Repubblica è il vero demiurgo. Vola alto e, a differenza di Andreotti, considera i servizi segreti il nocciolo inscalfibile dello stato.
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Del resto proprio nella vicenda del sequestro, e dell’assassinio del leader Dc, va in scena l’ultimo e drammatico confronto, proprio su questi temi, di Andreotti, presidente del consiglio, e Cossiga, ministro degli Interni, con Moro.
Altro che recensione. Qui ci vorrebbe una bella serie tv. Una poderosa raffica di puntate. Attingendo spavaldamente alle oltre settecento pagine dei tre volumi editi da Rubbettino e curati da Mario Caligiuri. L’ultimo, uscito quest’anno, è Giulio Andreotti e l’intelligence. La guerra fredda in Italia e nel mondo. Un libro che si collega ai precedenti Aldo Moro e l’intelligence e Cossiga e l’intelligence.
Sotto la lente di storici di valore – tra gli altri Biscione, Capperucci, Mastrogregori, Micheletta, Pacini, Riccardi, Ambrogetti, e di addetti ai lavori e specialisti del tema, vengono ricostruite les liasons dangereuses di tre mattatori della prima Repubblica, ovvero se ne ripercorrono i legami – incontri ma anche scontri – con i servizi segreti.
Da farci una bella serie tv, si diceva. Con contesti e location uno meglio dell’altro. Tanto per cominciare ci sono le frontiere dell’immediato dopoguerra. Le nostre, essendo quelle di un paese che ha avuto la pessima idea di buttarsi in una guerra dissennata, e di perderla disastrosamente, sono piuttosto agitate.
I nostri dirimpettai brigano e tramano. Spintonano per prendersi qualche fetta d’Italia a compensazione dei torti subiti.
Dove nulla è come sembra
L’apprendistato spionistico di un giovanissimo Andreotti, giovane sì ma pur sempre già nella Costituente e dal 1947, con De Gasperi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, comincia da qui. Da quando lo statista trentino gli affida la responsabilità politica del delicatissimo Ufficio zone di confine (UzC).
Il sovranismo non è nato oggi. A quei tempi obbliga l’UzC a tenere d’occhio a ovest revanchisti francesi e indipendentisti valdostani; a nord sud-tirolesi in combutta con sovranisti neo-nazi della Carinzia; a est gli agguerriti comunisti jugoslavi che, sul cruciale palcoscenico del Territorio libero di Trieste, affidato all’Amg – l’amministrazione alleata – giocano alla destabilizzazione. I servizi di Tito, la temibile Ubda e la spietata Ozna, l’alimentano in proprio ma anche, fino alla gran rottura con Stalin, per conto di Mosca. Sul mondo, e su quel confine, cala la “cortina di Ferro”. E inizia l’interminabile Guerra Fredda.
Intanto – e il saggio ne fornisce formidabili esempi – Andreotti vede in atto, per la prima volta, alcune costanti del “grande gioco”.
Dove nulla è come sembra. E tutto fluisce. Infatti uno “status quo”, anche se riguarda il territorio su cui si posano i piedi, non è mai un assoluto. Ha uno “status quo ante”, su cui tanti hanno messo mano. A complicare il presente non è solo il passato. Anche il futuro, che pure non c’è ancora, ci mette becco. Offre tante possibili evoluzioni. Troppe. Così Andreotti procede come i piloti in laguna, nei giorni di nebbia fitta. Sguardo sull’immediato e orecchie a captare i più remoti segnali di pericolo. Pondera dritte di spioni e controspioni. Studia i dossier. Non si fida di nessuno. Come dirà Cossiga, decenni più tardi: «Andreotti ha sempre creduto poco all’intelligence».
Infatti preferisce navigare a vista. Accade anche nel 1972 quando, da presidente del Consiglio, attraverso le missioni del fidato generale Jucci e all’insaputa di Moro, allora ministro degli esteri, mette mano al labirinto libico. Cerca di ammansire Gheddafi e di consentire all’Eni di attingere al petrolio di Tripoli. A volte il prezzo è alto. Prevede forniture belliche significative. E altro ancora.
È niente rispetto a quando accade nel 1980, con Cossiga premier. L’Italia diventa terreno di caccia dei killer di Gheddafi. Nel mirino dissidenti libici, a volte informatori dei nostri servizi. A primavera, in poche settimane, ne vengono ammazzati cinque. Gli assassini si fanno prendere senza problemi. Tanto, una volta incarcerati, processati, condannati, si smaterializzano. Si volatilizzano.
È lo stesso copione seguito nel caso dei terroristi palestinesi di Settembre nero quando, nell’agosto del 1972, cercano di far esplodere un Boeing 707 della EL Al partito da Fiumicino. Presi a Roma svaniscono in nome del “Lodo Moro”. Ovvero del patto di non ostilità, stretto con i palestinesi dal colonnello Giovannone, antenna del Sismi a Beirut. Giovannone si è mosso su indicazione di Moro, allora alla Farnesina. L’intento è di parare il paese da attentati di matrice medio-orientale.
Solo che un lodo tira l’altro, come le caramelle.
Infatti, nel volume dedicato a Moro, il più denso ma forse anche il più complesso e documentato della trilogia, emerge come, di lì a poco, viene accordato anche al Mossad di dispiegare operazioni coperte nel bel paese.
A ciascuno il suo stile
Andreotti, Cossiga, Moro. Ognuno ha il suo stile, nel gestire le spie.
Andreotti ama passi prudenti e sghembi. Scarta, se può, le prove di forza. Procede, sin dai primi passi all’UzC, per carsici percorsi. Quasi adattandosi alla morfologia del confine orientale.
Emblematica, nell’immediato dopoguerra, la vicenda delle trattative segrete avviate da un esponente tirolese per la liberazione di 174 prigionieri di guerra, austriaci ma incorporati nei reparti hitleriani e ancora in mano agli jugoslavi. Andreotti apprende che sono il pretesto per segreti incontri «tra Russia, Jugoslavia e Austria per arrivare a un mercanteggiamento a favore jugoslavo della Carinzia dietro a un compenso altoatesino per l’Austria». Non solo nulla è come sembra. Impara che, a volte, gli opposti si alleano.
Così muove le sue pedine. Attiva, a cominciare da Trieste, e poi lungo il confine orientale, il “tutoraggio” – chiamiamolo così – dei nostri servizi alle formazioni paramilitari di destra. Da impiegare per destabilizzare l’ordine pubblico a Trieste, complicando il più possibile la vita a Sir Terence Sydney Airey, il governatore inglese. Sino a quando il Governo militare alleato non decide di mollare la “libera città” di Trieste. Restituendola, nel 1954, allo stato italiano.
Dense e variabili sono le geometrie relazionali tra stati. Andreotti sperimenta come, dentro le sovranità, ci siano molteplici livelli di azione. E variegate compagnie a contratto, non sempre accordate sullo stesso copione. A volte non sanno di essere sullo stesso libro paga.
Una sola vita non basta
In questi stessi anni il ventenne Francesco Cossiga, minore rispetto ad Andreotti di nove anni ma, soprattutto, di significative esperienze e frequentazioni, gioca alla guerra. Nelle strutture di autodifesa allestite dalla Dc sassarese negli ex-rifugi antiaerei della città. Le armi le fornisce la Benemerita. L’addestramento lo impartisce un ex-marò del San Marco. Il futuro inquilino del Quirinale sperimenta il brivido di stringere un’arma. Di far partire una raffica di Sten.
Ricordate «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese...»? Cossiga, quasi fosse caduto dentro una pagina dell’Ariosto, scopre che una sola vita non gli basta. Di vite ne vorrebbe tante. Almeno quanti gli pseudonimi che, uscito dal Quirinale, userà. Jansenius quando pretende di essere un teologo. Franco Mauri quando fa il politologo per i quotidiani di destra. Mauro Franchi se le analisi sono destinate a testate di sinistra.
Dentro di lui, da sempre, ci sono due omini che si azzuffano. C’è l’omino nero che piccona e semina caos. E l’omino bianco che governa e calibra la riforma dei servizi segreti del 1977. Ricevendo perfino l’ok del Pci di Berlinguer.
Nel “grande gioco” Cossiga intravede la possibilità di occupare, della scacchiera, la casella che di volta in volta più gli aggrada.
Con questa convinzione avanza nel tempio dei segreti. Crede di intuirne i dogmi. Però ogni dogma spionistico cambia faccia in funzione di chi lo interpella. Così s’innamora delle liturgie spionistiche. Già negli anni Sessanta, quando è sottosegretario dalla difesa, le officia. È lui, del resto, su indicazione di Moro, ad apporre gli “omissis” che analizzando il “piano Solo” del generale De Lorenzo impediscono che vengano alla luce le strutture di guerra non ortodossa allestite in funzione anticomunista. E antisovietica.
Appena dopo Cossiga fa tana nella base dei servizi di Capo Marrargiu, Sardegna. Sono luoghi di casa. Li conosce benissimo. Però gli spioni, per fare scena, ve lo portano da Roma con un aereo dagli oblò oscurati. Dall’aeroporto di Alghero l’avventuroso viaggio prosegue su uno spericolato velivolo biposto. Atterraggio su una pista accanto a Torre Poglina. Davanti il mare del golfo dei Grifoni.
Rettilinei rettificati
Da quelle parti si stanno addestrando anche i guerrieri non ortodossi. Imparano a far attentati e sabotaggi in caso di invasione sovietica. Chissà se tutto quel generoso know-how destabilizzatore, con annesso kit di materiali e attrezzi di pronto impiego, non finirà, direttamente o indirettamente, anche a tipi quanto mai sbagliati. La strategia della tensione è appena dietro l’angolo. Qualcuno la dovrà pur preparare. O no?
Di voci, e non solo, ne correranno tante. Del resto, da quelle parti, accanto alla pista di volo, pare ci fossero altre piste. Anche una specie di autodromo dove sono saliti in cattedra docenti inglesi, esperti nel tracciare “rettilinei rettificati”. Sì, la tecnica di eliminare qualcuno di scomodo mettendo in scena calibratissimi incidenti stradali. Come quello che nell’aprile del 1969 mette fine alla folgorante carriera del gen. Ciglieri. Già comandante dell’arma. E poi comandante designato della III° armata. In borghese, senza documenti, all’alba di una domenica mattina, procede su un rettifilo sulla sua Alfa Romeo. Un platano secolare, e anche assassino, lo ferma per sempre.
Cossiga, devoto ai riti inglesi dell’intelligence, preferisce però parlare d’altro. Narrando di Capo Marrargiu ricorderà che lì «Tutti si chiamavano per nome. E si facevano grandi abbuffate di pesce». Ovviamente si giocava anche con il fuoco. Anzi, con gli esplosivi: «Assistetti alle loro esercitazioni, mi insegnarono l’uso degli esplosivi, operando dentro un bunker». Sottosegretario dunque e, perché no? Provetto sabotatore.
Catapultato, anni dopo, al Quirinale, continua il gioco. Allestirà un’ipertecnologica “war room” su cui vigila, controfigura del dottor Stranamore, il dotto generale Carlo Jean. Il suo consigliere militare.
Da presidente Cossiga briga per stare dentro un plot alla Le Carrè. Orchestra perfino uno scambio di spie. Organizza il baratto tra Dimitrov, agente russo arrestato a Ivrea per spionaggio informatico, e i famigliari, trattenuti a Mosca, del transfuga del Kgb Gordievsky, scappato a Londra. Ne esce uno dei pezzi forti con cui Cossiga intrattiene gli intimi. Anche dopo la fuoriuscita dal Quirinale. Quando per un po’ si accampa nel verde d’Irlanda. In una mansion aristocratica e vigilatissima. Sempre in tuta ginnica. Parecchia birra Guinness a disposizione. Soprattutto molti dossier cruciali – sui servizi da riformare ancora una volta, ovviamente. Ponderati in compagnia di due fidatissimi collaboratori. Un po’ famigli e un po’ amici.
Se la serie tv nascesse il ruolo di cucire assieme i tasselli del mosaico non potrebbe che andare a lui. Allusivo e pluriprospettico. Velenoso e generoso, ma sempre con sofferta contraddizione. Soprattutto ultroneo. Aggettivo che gli piace parecchio. Ovvero eccessivo. Strabordante, oltre il dovuto. Sovrastante la norma. “Cesare”, a suo dire, è il nome di copertura che gli ha assegnato qualche segretissimo Olimpo spionistico.
Vuoti di potere
Tutto il contrario di Aldo Moro, insomma. Basta leggere – nella trilogia edita da Rubbettino, curata da Caligiuri – i serrati contributi che compongono Aldo Moro e l’intelligence. Il senso dello Stato e le responsabilità del potere per rendersene conto.
Moro – chi l’avrebbe detto? – sul palcoscenico dell’intelligence italiana della prima Repubblica è il vero demiurgo. Vola alto e, a differenza di Andreotti, pragmatico e scettico sul ruolo dell’intelligence, considera i servizi segreti il nocciolo inscalfibile dello stato. Ossessionato, e non a torto, dai «vuoti di potere» che richiamano disastri nella navigazione della Repubblica (nella raccolta dei suoi scritti il concetto di “vuoto” – politico, di potere – si ripete per 37 volte; ben 27 nella stagione del primo centro-sinistra) ne vede il ruolo cruciale. Irrinunciabile. Da maneggiare con cura e solo da parte di chi conosce bene i delicati equilibri di apparati dove potere politico e segreto si incontrano. E si scontrano.
Apparentemente più che la pratica è la curiosità intellettuale a condurlo su temi che lo appassionano: la tutela del segreto, la distinzione tra azioni legali e operazioni illegali ma legittime secondo la ragion di stato, le dinamiche delle reti cospirative, l’impiego della forza in missioni coperte. E poi lo spessore culturale. Quanti altri politici, davanti all’impennarsi del terrorismo, sentono il bisogno, che lui avverte, di confrontarsi con le pagine dei Demoni di Dostoevskij?
Questi nodi cruciali li inserisce nel suo personalissimo metodo di processare senza tregua il contesto e le diverse rappresentazione del contesto. Per dirlo con parole sue: «Non è che io riceva delle cose per disperderle subito dopo. Tutto quello che io sento accolgo in me con grande scrupolo, direi con tormento, perché tutto è vivo e presente nella mia coscienza».
Questo Moro, così sofisticato e quasi barricato nella riflessione teorica, è lo stesso però che dentro la crisi dell’estate del 1960 utilizza il rapporto solidissimo che da segretario Dc ha stretto con De Lorenzo per imporre a Tambroni di farsi da parte. Ci riesce servendosi delle intercettazioni telefoniche messe a sua disposizione dal capo del Sifar. Paradossalmente, col supporto dei servizi, apre le porte alla stagione riformista più incisiva. Quella dei primi passi del centrosinistra, con astensione socialista, affidato a Fanfani.
Il suo timore costante è che il circuito delle informazioni e delle azioni segrete finisca in mani inadeguate e rissose. Dando vita – come accadrà – a un palcoscenico, anche mediatico, dove i temi dell’intelligence si trasformeranno in carburante (più spesso in veleni) della competizione politica. Ne deriverà, a catena, la polverizzazione degli apparati in cordate e filiere accodate ai vincenti di turno. Per questo Moro sarà durissimo nell’opporsi prima alle inchieste parlamentari sul Sifar («la Dc non ammette ingerenze comuniste o fasciste in un delicato servizio di stato») e quindi nel far apporre omissis sulle relazioni conclusive. Compito affidato a Cossiga, cooptato da Moro quale braccio operativo di una visione dell’intelligence che di lì a poco sarà tutta da riscrivere. Dopo la disastrosa navigazione nella stagione della strategia della tensione e l’avvento del terrorismo.
Del resto proprio nella vicenda del sequestro, e dell’assassinio del leader Dc, va in scena l’ultimo e drammatico confronto, proprio su questi temi, di Andreotti, presidente del consiglio, e Cossiga, ministro degli Interni, con Moro. Prigioniero dei brigatisti e tuttavia, fino all’ultimo, testimone tenace di un metodo che non si arrende alle banalizzazioni. Né accetta di soccombere alle ombre della menzogna. E alle pigrizie dell’intelligenza.
Mario Caligiuri ha curato il libro Giulio Andreotti e l’intelligence. La guerra fredda in Italia e nel mondo, edito da Rubbettino e pubblicato quest’anno, e i precedenti Aldo Moro e l'intelligence. Il senso dello Stato e le responsabilità del potere (Rubbettino, 2018) e Cossiga e l'intelligence (Rubbettino, 2011)
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