Terremoto nella società segreta degli scrittori e dei lettori di racconti. È morta Alice Munro, aveva novantadue anni, da dieci non scriveva più. Alice Munro che, da quando vinse il Nobel per la letteratura nel 2013 (poco prima di deporre la penna per sempre), viene considerata una specie di istituzione per tutti i cultori della forma breve. La motivazione dell’Accademia Svedese non fu mai più concisa e diretta, definendo senza mezzi termini l’autrice canadese: «Maestra delle storie brevi contemporanee».

L’elemento del tempo

Nata in una famiglia di agricoltori dell’Ontario, riesce a coltivare il dono della scrittura grazie a diverse borse di studio. Ma a spingerla a praticare la forma vertiginosa della brevità sarà la famiglia. Come molti altri scrittori prima di lei – Raymond Carver se ne andava a scrivere in macchina per riuscire a combinare qualcosa – la mancanza di tempo è l’elemento decisivo, marito e figli sono un’occupazione che non potrebbe mandare avanti se avesse progetti più lunghi, mire da romanziera.

Sbriciola il suo mondo narrativo in tante piccole storie, dal fiato soltanto apparentemente corto, completamente autosufficienti, che alla fine costituiranno la gran parte della sua produzione letteraria. Oltre una dozzina di raccolte che la renderanno una specialista del racconto, nella quali rappresenta sia la campagna che la città, sia donne che uomini, sia ricchi che poveri. Questa grande pietas trasversale è forse il tema implicito più forte presente nel suo lavoro.

Non c’è un solo scrittore di racconti che a un certo punto della sua carriera non sia stato paragonato a Anton Čechov, ma nel caso di Alice Munro il parallelismo pare particolarmente azzeccato. Non solo per questo aspetto della sospensione del giudizio, che con Čechov inaugura il racconto moderno, ma anche per la maniera di costruire il proprio campo letterario. Per Alice Munro conta la rappresentazione, e più che risposte vuole offrire domande.

Atteggiamento capace di esaltare lo specifico letterario della brevità, che per sua natura è fatto di omissioni, lacune, ambiguità. Poche parole a disposizione equivalgono a molti silenzi, molte pause, molti salti. Uno scrittore di racconti non ha tempo per dire tutto, molti interrogativi resteranno inevasi, ricadranno sul lettore, il quale, nella migliore delle ipotesi, ci rimuginerà sopra per tutta la vita.

Non è solo questione di lasciare il finale aperto o interrotto, tecniche che pure Munro sapeva usare come nessuno, ma di incarnare perfettamente una forma. Sapere quel che si sta scrivendo o non saperlo, designa due atteggiamenti creativi antitetici, sebbene ambedue ammissibili: Alice Munro apparteneva senz’altro alla prima categoria.

Il rapporto con la forma

Il realismo di un racconto sarà sempre antinaturalistico per mancanza di parole, una rappresentazione ridotta ai minimi termini diventa una stilizzazione. Ernest Hemingway inventando la realtà letteraria, mutuata da una ferrea scuola giornalistica, l’ha subito dovuta tradire. Munro parte da queste premesse, e nelle prime raccolte sembra raccogliere l’eredità dei suoi illustri predecessori.

Poi capisce che se non può, e forse non vuole, diventare una romanziera, può comunque trasformare i suoi racconti in romanzi bonsai. È questa lo sviluppo che apporta alla forma, la sua sperimentazione, il colpo d’ala.

Se il racconto non ha tempo, lei cerca disperatamente di darglielo, facendolo uscire dalla trappola della polaroid – il racconto inteso come una fotografia –, dotando i suoi personaggi di un passato e di un futuro, evitando di farli agire solo nel presente. Nei suoi racconti diventano importanti dei procedimenti cari al romanzo, come il flash back (il recupero di eventi del passato) o l’analessi (la visione di eventi che si svilupperanno nel futuro). Manda così in libreria le sue raccolte migliori (reperibili per il pubblico italiano presso Einaudi): Nemico, amico, amante…, Chi ti credi di essere?, Il percorso dell’amore.

Un riscatto per tutti

Alice Munro per tutto il movimento degli scrittori di racconti – figli di un Dio minore e orfani della teoria, basti pensare che esiste l’aggettivo “romanzesco” ma non l’equivalente “raccontesco”, usato forse solo da Giorgio Manganelli – ha significato e continua a significare una sorta di riscatto.

La visibilità internazionale che ha ricevuto è stata in grado di restituire attenzione al racconto e – in un mercato sempre più asfittico, prono alla cultura bestsellerista fatta di romanzi – a tutelare ancora per un po’ una autentica bibliodiversità. Quindi in alto i calici per Alice Munro.

C’è ovviamente la celebre foto che ritrae insieme a braccetto Raymond Carver, Tobias Wolff e Richard Ford. Gli scrittori di racconti sono un po’ così, si sentono membri di una società segreta, cercano di fare comunella perché in realtà sanno di essere spacciati, isolati, condannati alla solitudine.

Quasi fuori mercato, a un passo dal baratro delle nicchie dedicate ai poeti e alla poesia, più che un fight club ricordano un circolo di scacchisti. La brevità  – questo elemento afrodisiaco che dà le vertigini (breve non significa basso) – fa di loro dei forzati della logica: in tre o quattro pagine non si può sbagliare neppure una mossa. Lo scrittore di racconti è sempre nudo, non si può nascondere dietro pagine e pagine di scrittura, la sua arte è impietosa, radiografica, fa risaltare i pregi come i difetti, e polverizza qualsiasi velleitarismo.

Allo stesso modo degli scacchi poi, esistono delle tattiche che lo scrittore di racconti studia e introietta, alla Kafka o alla Buzzati, alla Gogol o alla Salinger, sperando poi di superarle in una variante magistrale. A differenza del romanziere, lo scrittore di racconti ambisce alla perfezione. Può illudersi di lasciare una traccia, un segno impeccabile, visto che il suo gesto viene giocato tutto in così poche pagine. Lo scrittore di racconti è ossessionato dalla forma racconto come non capiterà mai a un romanziere con la forma romanzo.

È una questione di controllo: la prima forma lo incoraggia, la seconda lo reprime. Siamo a un passo dalla religione, come si vede, ed è a questo punto che lo scrittore di racconti comincia a sentirsi una specie di carbonaro, depositario di un sapere e un linguaggio cifrato, comprensibile solo da pochi eletti. Comincerà a leggere la realtà attraverso i racconti, cosicché avremo ingorghi autostradali alla Cortázar, aperitivi alla Mansfield, matrimoni alla Bachmann, festini alla Bukowski e così via...

E tutto questo per provare almeno una volta a trionfare sull’informe, sul caos, sull’entropia, carezzando l’utopia del racconto perfetto (quasi perfetto: il massimo auspicabile), ciò che un romanzo considerata la sua natura ibrida, polimorfica e onnivora non potrà comunque mai essere. In alto i calici dunque a questa razza strana di scrittori, a questi masochisti dell’esattezza (no, non ci può essere nessuna capacità visionaria al di fuori della precisione – parola, frase, periodo e poi daccapo), a questi instancabili intagliatori di orologi svizzeri dagli ingranaggi narrativi ineccepibili.

Si conoscono tutti tra di loro (non importa se hanno scritto anche romanzi, anche bellissimi romanzi), la carica non decade mai, nemmeno la morte può sciogliere il patto segreto. Io stesso ho smesso di fumare dopo aver letto un racconto di Julio Ramón Ribeyro.

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