Mi sento come la tifosa di una squadra che vede il suo Maradona andare via, senza che nessuno faccia qualcosa per fermarlo. È così che appare dal di fuori la trattativa Stato-Ama, un gigantesco errore di valutazione che ricade su noi spettatori
Non ho mai tifato una squadra di calcio. Osservo con invidia e curiosità i moti dell’animo che scuotono l’esistenza delle persone attorno a me quando c’è una partita importante. Non conosco la tensione che si può provare per uno scudetto perso, non so cosa vuol dire la delusione di una Champions mancata.
Immagino, vagamente, quale potesse essere il sentimento napoletano quando Maradona è andato al Siviglia, e so quanto ci tengono i romanisti a dire che Totti è stato un grande capitano anche solo per il fatto di non aver mai lasciato la Roma. Tutte queste emozioni mi sono state estranee fino a quando non ha cominciato a circolare la notizia che Amadeus avrebbe lasciato la Rai.
La trattativa stato-ama
Prima ancora di andare avanti: so che le due cose non sono equiparabili e che la fede calcistica può superare i confini terreni di una religione. Ma è così che mi sento, il giorno in cui la dipartita di Amadeus dalla televisione pubblica è ufficiale. Mi sento come la tifosa di una squadra che vede il suo Pibe de oro andare via, senza che nessuno faccia qualcosa per fermarlo.
È così che appare dal di fuori la trattativa Stato-Ama, un gigantesco errore di valutazione, un testa a testa che ricade solo su noi spettatori, tifosi fedeli, insaziabili ultrà dell’access prime time.
Perché sono tutti bravi a osannare l’Amadeus demiurgo della rinascita del festival di Sanremo, quello che lo ha trasformato in un tagadà di hit, agglomerante di meme e rito collettivo dal sapore dolcemente novecentesco.
Non è in quella folle settimana di febbraio che ci mancherà Amadeus, anche se la prospettiva di un festival forgiato dalle scuderie di TeleMeloni già basta a far venire il mal di testa, tra Hoara Borselli e altre ipotesi di caratura fantozziana. Del resto, dopo il climax c’è sempre la discesa, e dopo cinque edizioni in up non si può che andare in down.
Popolare, non populista
L’Amadeus di cui sentiremo la mancanza è quello di tutti i giorni. Noi, pacchisti d’Italia, ludopatici a dosi omeopatiche che ogni sera ad Affari tuoi guardiamo scorci di paese reale rincorrere con affanno fatalista trecentomila euro, affidandosi ai più disparati metodi di scaramanzia.
Noi che facciamo sfiorare il 40 per cento di share a un programma in cui si decide il destino del proprio futuro economico affidandosi a un sogno premonitore o alla simpatia per un numero, noi che urliamo «Zero, zero, zero!» insieme al pubblico in studio mentre “il dottore” detta al telefono la cifra dell'offerta, fomentati da canzoni pop sparate a tutto volume, adrenaliniche come la colonna sonora di un autoscontro.
Amadeus, medio e mai mediocre, vive con noi gli istanti di terrore prima di aprire un pacco, domanda ai concorrenti cosa farebbero con quei soldi, sottolinea ogni giorno il valore delle cifre, alte o basse che siano, in pieno spirito baudiano: popolare, non populista.
Romanzo di formazione
Forse ciò che rende Amadeus così normalmente simpatico, e di conseguenza istintivamente caro, è il fatto che il suo percorso televisivo è un bel romanzo di formazione all’interno del quale esistono tante fasi, anche brutte. Una carriera tutt’altro che lineare, partita dalla fucina di Claudio Cecchetto, con la spinta radiofonica del reflusso anni Ottanta da penso positivo, al fianco del suo caro amico Ciuri, e arrivata agli anni Zero con inciampi e sbandate.
Oggi i suoi errori a Sanremo sono oro colato, imprevisti che diventano benzina sul falò della viralità, ma non è sempre stato così.
Amadeus, quel posto da lider maximo della televisione di stato, se l’è conquistato dopo anni di alti e bassi: non serve andare troppo indietro, basti pensare che poco più di dieci anni fa, nel “Tale e Quale” del 2013, era lui a fare da concorrente, mettendo la parrucca da Amanda Lear o indossando la tutina azzurra da Sandy Marton.
Chi lo avrebbe detto che quel concorrente goffo, anche piuttosto scarso, nel decennio successivo sarebbe diventato il più desiderato di tutti? Lo stesso che nel 2016, in un fuorionda di “Mezzogiorno in famiglia” si faceva scappare un goliardico e pericoloso «vorrei la minchia nera»; del resto, quell’anno infausto era iniziato con una bestemmia in sovraimpressione alla diretta di Capodanno su Rai 1, sempre presentata da lui.
Chi perde
Non è tanto l’ipotetico trasferimento dei “Soliti Ignoti” sul Nove, il riassetto di un canale privato che diventa the place to be per tutti i conduttori più blasonati, la ricostruzione fedele dei format come "Che tempo che fa” a farmi infuriare in questi movimenti tellurici del mondo televisivo contemporaneo.
Quello che più mi intristisce, come un tifoso che vede la propria squadra perdere e vendere tutti i suoi migliori giocatori, è che nel gioco del tele-mercato a perderci è il servizio pubblico. Che Amadeus voglia abbandonare proprio all’apice della sua carriera per provare altro, come ha detto Fiorello a “Tv Talk”, quando tra il serio e il faceto faceva da ufficio stampa all’amico di vecchia data qualche giorno prima dell’annuncio ufficiale, mi sembra sensato, da un punto di vista strettamente lavorativo. Ma che all’interno della Rai nessuno sia riuscito a convincerlo a restare mi pare davvero esemplare.
«Speravo di mori’ prima», dicevano gli striscioni per Totti il giorno in cui ha giocato la sua ultima partita, «Speravo di non dover cambiare canale», diremo in molti quando accenderemo la televisione all’orario di cena e ci toccherà andare ben oltre i confini di Rai 3.
E a questa destra che vuole fare l’egemonia culturale a suon di Pino Insegno e Povia non posso che dire: Silvio Berlusconi non vi ha insegnato proprio niente.
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