Nel film di Berger L’amante dell’astronauta non c’è solo la storia gioiosa di una relazione omosessuale. Dietro c’è anche una casa di distribuzione indipendente e preziosissima. Oltre a emozioni universali
Una storia d’amore gay è solo un film “per loro”, come vorrebbero tanti? A chi verrebbe in mente di descrivere I ponti di Madison County come una storia d’amore “etero”? I segreti di Brokeback Mountain era un film destinato al mercato di nicchia Lgbt?
Domande oziose ma neanche tanto, se rifletti su un UFO che esce da noi il 20 giugno e certo non finirà nei multiplex, non fosse altro perché Marco Berger è un autore di punta del nuovo cinema argentino, di culto sì ma che in Italia non ha mai trovato distribuzione.
Il titolo italiano è L’amante dell’astronauta, ma quello originale, di poco dissimile, Los Amantes Astronautas, era più funzionale. È una buona occasione per raccontare non una ma tre storie, scomponibili e collegate per artificio di nascita. Come una matrioska.
Storia n° 1: teodora
Ad affrontare il rischio distributivo di un film inconsueto, per la prima volta col proprio nome e in tandem con Circuito Cinema, è Cesare Petrillo, socio di Vieri Razzini nella distribuzione indipendente Teodora e suo compagno per 32 anni.
Vieri Razzini, scomparso due anni fa, è stato un intellettuale inestimabile, caro e prezioso per chiunque lo abbia anche solo appena sfiorato. Tralasciando vari altri meriti, il debito di riconoscenza delle platee cinefile verso l’attività di Teodora è smisurato.
Qualche pietra miliare. Ha co-prodotto e distribuito nel 2001 La ciénaga, facendoci scoprire Lucrecia Martel e i suoi film successivi. Si è coltivata negli anni Susanne Bier e ha lanciato da noi Anders Thomas Jensen (Le mele di Adamo è del 2005). Ha scommesso su Irina Palm e sul Thomas Vinterberg di Riunione di famiglia, sulle promesse Francois Ozon e Joachim Trier ma anche sul Michael Haneke Palma d’oro di Amour.
Ci ha fatto vedere Molière in bicicletta e Pride. Dulcis in fundo, è stata la “casa” italiana di Ruben Ostlund, da Forza Maggiore a Triangle of Sadness, passando per The Square, doppia Palma a Cannes. E cito solo i miei must personali.
Per tanti spettatori in debito, trovare la dedica a Vieri Razzini sui titoli di testa di L’amante dell’Astronauta (e non sui titoli di coda, secondo l’uso consueto) è una bella emozione. Cesare Petrillo dice di aver trovato in questa storia il senso del suo incontro con Vieri, quel “riconoscimento” tra creature lontane per età e formazione che ti lega per tutta la vita. È un unicum distributivo, ma anche parecchio di più.
Storia n° 2: la trama
Astronauta è uno dei nomignoli con cui i gay di lingua ispanica identificano la propria comunità di appartenenza: niente a che fare con Cape Canaveral. Marco Berger è un narratore di desideri omoerotici espliciti, senza dissolvenze strategiche a scanso censura. A Berlino nel 2011 il suo Ausente è stato premiato con il Teddy Award per la più innovativa pellicola a tematica queer, ma con il primo corto è stato in concorso al Sundance e a Cannes, con i lungometraggi a San Sebastian, Rotterdam e Karlovy Vary.
Ma L’amante dell’astronauta è un film romantico, una love story senza nudi cui solo la natura dei dialoghi conferisce una identità di genere. La complicità amichevole che si stabilisce tra Pedro (Javier Oran) gay dichiarato, e Maxi (Lautaro Bettoni), fascinoso etero single che rimorchia ragazze a man bassa, è fatta di affinità e di battute.
È un mondo di riferimenti comuni, di cinema e letteratura, di condivisione tra due ragazzi ordinari che non assomigliano a manichini palestrati, non hanno corpi statuari da riviste queer. Si ritrovano in una vacanza a casa di amici e parenti, ventenni che hanno in comune lo stesso senso dell’umorismo e una gran voglia di burle.
È una di quelle amicizie da colpo di fulmine: si capiscono al volo. Quando in tre maschi devono condividere la stessa camera, fioccano le frecciate collettive sui rischi di chi dorme con Pedro. È troppo allettante per i due complici giocare, per gabbare i conviventi, agli imprevedibili “fidanzatini”, magari (da parte di Maxi) solo per una scommessa con la sua ex ancora rimpianta. La schermaglia ammiccante – un ping-pong di doppi sensi a tratti fin troppo incalzante- è il cuore stesso del film: si prestano al gioco Don Chisciotte e il Kubrick di 2001: Odissea nello Spazio, ma tutto fa al caso. Happy ending romantico, in armonia: «È una storia spudoratamente felice», sintetizza il regista.
Il film di Berger vanta probabilmente i dialoghi più spumeggianti dell’ultimo ventennio di cinema, un torrente in piena capace di sgomentare perfino i baby boomers più contigui alle acrobazie verbali di un secolo fa, quando Howard Hawks faceva sceneggiare i battibecchi di Ventesimo secolo da Ben Hecht, Preston Sturges, Gene Fowler e Charles MacArthur. Era cinema, quello, che coltivava i palati, non li mortificava.
Storia n°3: film della vita
Riparto dalla prima domanda: hanno un genere, un sesso, le storie d’amore? Non c’è mai un “perché” per il film della vita. Il film d’amore della mia vita è Festa per il compleanno del caro amico Harold (The Boys in the Band, William Friedkin, 1970). Un film dalla pièce di Mart Crowley, tutto Lgbt, uno dei primi. Vai a capire, per una bambina: questione di ormoni in crescita libera, forse di mood.
È vero che ha rivoluzionato la cultura pop, ma che ne sapevo? Oltre mezzo secolo dopo, niente per me lo ha più rimpiazzato. Da bambina, prima che inventassero i VHS, lo inseguivo nelle seconde visioni registrandolo maniacalmente in audiocassette. Per me declinava tutta la gamma dei sentimenti d’amore e i loro opposti, il disagio di riconoscersi (chi non lo prova, da piccolo?), il desiderio e il rancore.
Quando ho incontrato Bill Friedkin negli anni Novanta, gli ho vomitato (ma sì) addosso tanta passione per quel suo primo film che dall’America mi ha spedito copia del suo VHS personale with my warmest regards and gratitude.
Quella lettera ce l’ho ancora, appesa al muro. All’epoca tanti dei protagonisti erano stati falciati dall’Aids, ma Friedkin mi disse: «L’ho girato come una storia d’amore e basta». Una storia d’amore no-gender, comica, dolorosa, erotica senza ostentazione: così l’avevo sempre vista io. Mi raccontò di quell’unico bacio girato e tagliato poi in montaggio. Sarebbe stata la prima volta, in un film mainstream.
Ma era superfluo, davvero. W.F. ne dà conto anche nella sua autobiografia, The Friedkin Connection, del 2013. Mart Crowley aveva messo in quel suo primo lavoro (off-Broadway per ghettizzazione) la rabbia, l’isolamento e la passione della sua ristretta e assediata cerchia di amici, e pretese che il cast teatrale traslocasse immutato nel film.
Nel 1970, Friedkin aveva 35 anni, come Crowley. Era etero, ma ebreo come Harold. «Sono una checca di 32 anni, brutta, butterata e ebrea»: uno dei più corrosivi autoritratti di sempre. L’amore su schermo è, e sarà sempre, non questione di gender ma di scrittura.
È stato così anche per Weekend, di Andrew Haigh, altro titolo distribuito Teodora. È così per L’amante dell’astronauta. Lo psicodramma claustrofobico di Festa per il compleanno del caro amico Harold suonava universale anche per una bambina. «The boys might be in the band, but the band plays for everyone», scriveva The Hollywood Reporter. È così quando le band suonano per tutti, come la campana di Hemingway
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