È l’istinto che spinge i mercenari greci a osservare le onde, in una terra straniera, nell’Anabasi di Senofonte. Ma è anche la profondità dove si sfidano i dilemmi etici della protagonista dell’ultimo romanzo di Emiliano Poddi
- Nel passaggio forse più celebre dell’opera, Senofonte immortala il momento in cui, davanti al mare, i soldati gridano in coro nella loro lingua materna: «Thalatta!». Come se nominare il mare lo rendesse più vero; come i bambini invocano il nome della mamma, il suo nome più comune e più antico, per rassicurarsi, per ricordarsi che è vicina.
- E quello stesso richiamo torna nel romanzo di Emiliano Poddi, da poco in libreria per Feltrinelli, Quest’ora sommersa, incastonato dentro una fantasticheria iperrealista di vendetta tanto concreta quanto impossibile.
- Il mare, però si trasforma in un abisso. E, quando si guarda dentro un abisso, bisogna fare molta attenzione.
L’Anabasi di Senofonte è la storia dell’impresa grandiosa e fallimentare di un’armata di mercenari greci al soldo del satrapo persiano Ciro il Giovane, che si era creato un suo esercito personale per cercare di strappare il trono al fratello Artaserse II. Senofonte, che la storia la racconta, è anche uno dei diecimila soldati. E nel passaggio forse più celebre dell’opera immortala il momento in cui, stracciati, sfiniti, i diecimila si trovano di fronte alle onde del mar Nero, e dalle prime file corre fino alle retrovie, di bocca in bocca, un grido che cresce come un’onda: «Thalatta! Thalatta!». La parola greca per dire mare risuona sulle sponde straniere, anzi barbare, perché i greci così si riferiscono a tutto ciò che greco non è: e quel mare è un mare barbaro, come barbaro è l’esercito in cui i mercenari servono.
Eppure, davanti al mare, i soldati gridano in coro nella loro lingua materna: «Thalatta!». Come se nominare il mare lo rendesse più vero; come i bambini invocano il nome della mamma, il suo nome più comune e più antico, per rassicurarsi, per ricordarsi che è vicina. Questi soldati stanchi, in pericolo in una terra straniera, urlano tutti insieme l’illusione di poter tornare a casa sani e salvi. È uno di quei momenti letterari che rimangono per sempre impressi nella memoria di chi li ha studiati a scuola, di chi li ha letti anche solo una volta e non li ha più scordati; qualcosa che supera l’idea di “classico”, anzi, che in un certo senso la rende possibile con la forza di un’epifania capace di parlare a uomini di ogni tempo e di ogni dove. Il mare che compare dal nulla, la parola per dirlo; una parola della lingua materna di quei soldati che, non fosse per il loro grido, sarebbero sprofondati nell’oblio della storia. Tanto è forte, quest’urlo, che molti secoli dopo Heinrich Heine lo riprese nel suo Saluto al mare, con tutto lo struggimento per l’azzurro Sud che seppero coltivare gli intellettuali dell’Ottocento tedesco. Se per i Greci di Senofonte vedere il mare è come tornare a casa, il mare del romantico Heine è il Mediterraneo del desiderio, orizzonte etico ed estetico di un equilibrio naïf e irraggiungibile, se non per la via dello struggimento, appunto: la via sentimentale che ripercorre le tracce dell’ingenuità perduta.
L’urlo di una vecchina
E quello stesso richiamo – il mare, il mare – torna nel romanzo di Emiliano Poddi, da poco in libreria per Feltrinelli, Quest’ora sommersa, incastonato dentro una fantasticheria iperrealista di vendetta tanto concreta quanto impossibile; come se si consumasse in una realtà parallela in cui la storia è modificata secondo i criteri, se non di un sogno, certo di un appagamento di desiderio. Torna l’urlo al mare che fu dei soldati di Ciro e poi di Heine, declamato nientemeno che dall’anziana Leni Riefenstahl, cinquant’anni per gamba, letteralmente, e i piedi infilati dentro un paio di pinne, le unghie pitturate di rosso, una fragilità di vecchina continuamente sfidata con il fare sornione di una belva non del tutto addomesticata; un piglio da sfinge, una finta innocenza un poco kitsch, una forza feroce e trattenuta, un’ambivalenza sottile, iridescente come la superficie del mare che la sovrasta. Che non è il mar Nero di Senofonte, non è il Mediterraneo sulle cui rive erano cresciuti i soldati dell’Anabasi, e neppure quello sognato da Heine, ma è l’oceano Indiano delle Maldive. «Thalatta, thalatta», scandisce Riefenstahl in muta da sub, e come una scolaretta recita la poesia: Io te, mare eterno, diecimila volte saluto.
Il mare, però si trasforma in un abisso. E, per citare un altro tedesco che per il sud ebbe una grande passione – Friedrich Nietzsche – quando si guarda dentro un abisso bisogna fare molta attenzione: perché è in quel momento che all’abisso permettiamo di guardare dentro di noi. Nella fattispecie, l’abisso su cui la vecchia Leni abbassa lo sguardo, e che le si spalanca davanti in un gioco di specchi ambiguo e affascinante, è l’habitat di una strana, pericolosa sirena; pericolosa, almeno, per la vecchia regista. Ovvero una biologa marina, voce narrante del romanzo, che ha studiato biologia per occuparsi «di cose vive e non di cose morte»; anche se la cosa “viva” di cui si vorrebbe occupare è un conto rimasto in sospeso per decenni, una storia oscura che riguarda sua madre e, per l’appunto, Riefenstahl, al tempo in cui era una regista nel fiore degli anni, la pupilla del Führer.
L’abisso
La biologa si chiama Martha: il nome l’ha scelto sua madre per lei, e solo una lettera, la muta H, lo distingue dal nome del personaggio che Leni interpretava nel film Tiefland, da lei stessa diretto. E non è un caso: perché la madre di Martha da adolescente ha recitato proprio in quel film, ambientato in un’immaginaria Spagna medioevale, insieme ad altri ragazzini sinti: zingari che «non hanno niente di speciale tranne il fatto che possono passare per contadini spagnoli». Erano le comparse di un kolossal in costume; ma, in realtà, erano prigionieri destinati al campo di concentramento. La regista poteva forse non saperlo, mentre infuriava la Seconda guerra mondiale e lei metteva in scena questo melodrammone epico dalla lavorazione infinita, che fu infatti completato solo negli anni Cinquanta? Non poteva; perché li aveva scelti di proposito. Il suo film era ambientato in Spagna, ma girato a Krün, Alta Baviera, e lei aveva un disperato bisogno di comparse dall’aspetto meridionale: «uomini, donne e soprattutto bambini che potessero essere scambiati per spagnoli; solo che ovviamente da quelle parti era difficilissimo trovarne, ovunque ti voltassi c’erano bambini biondi dalla carnagione rosea che mai e poi mai avrebbero potuto passare per spagnoli, dunque niente comparse e niente scene di massa». Ma proprio quando Leni inizia a pensare di dover rinunciare al suo progetto, provvidenzialmente viene a sapere che «alle porte di Salisburgo c’era un campo speciale destinato a sinti e rom». Loro sì, che sembrano spagnoli. Poddi ripesca e fa rivivere una pagina misconosciuta della storia del cinema, che si intreccia con la sistematica catena di crudeltà e sopraffazioni naziste ma, soprattutto, con la stupefacente ambivalenza della regista. L’esteta trasformista che attraversò il Novecento – dalle Olimpiadi di Berlino del 1936, con la celebrazione della perfezione atletica dell’inesistente razza ariana, ai reportage africani degli anni Settanta, fino alla fotografia subacquea, che realmente l’appassionò negli ultimi anni della sua lunghissima vita – riuscendo, misteriosamente, a non assumersi mai le responsabilità della sua connivenza col regime. Martha è pronta a vendicarsi, ma la sua non è una vendetta lineare. Perché il mare, davanti al quale lei e la vecchia Riefenstahl, pinne ai piedi, recitano insieme i versi di Heine ripetendo parole di Senofonte, diventa abisso: un pozzo che risucchia, in una spirale di dilemmi etici, e declina il tema della responsabilità nell’infinito, ambivalente gioco delle parti fra vittima e carnefice.
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