È tornato in grande spolvero, munito di una buona dose di disprezzo verso il mondo e sé stesso, per promuovere il suo film Heretic. C’è un che di entusiasmante in questo signore determinato a non sembrare una brava persona
Prima dei social, prima di Youtube, prima delle piattaforme di streaming ma forse anche prima di Megavideo e della mia prima linea adsl, c’è stato un tempo in cui guardavo con gusto i contenuti speciali dei dvd (quei piccoli dischi olografici che in una galassia lontana lontana inserivamo in scatole elettroniche in grado di leggerli e riprodurre film sugli schermi di casa).
In uno di questi, non mi ricordo se quello di Love Actually o di Il diario Bridget Jones o di quale altra commedia inglese dei primi Duemila, c’è uno Hugh Grant al massimo della forma e del successo che con la compostezza oxfordiana che lo contraddistingue da sempre dice: «La commedia è una cosa semplice: un uomo entra in una stanza, perde i pantaloni, scivola su una buccia di banana e scorreggia». Da allora è il mio intellettuale di riferimento.
Sono pertanto molto felice che in queste settimane sia stato ospite ovunque, a deliziare varie televisioni e profili di TikTok con quell’antipatia irresistibile che solo un inglese quintessenziale come lui sa padroneggiare (allo stesso popolo appartengono anche alcuni degli individui più impresentabili del genere umano, ma è difficile non amare entrambi gli estremi, per quanto mi riguarda).
L’espediente per questa sua nuova ubiquità è la promozione di Heretic, un horror uscito da poco nelle sale americane che essendo prodotto da A24 – la casa di produzione che ormai è un bollino di qualità apposto su tutto ciò che bisogna aver visto per fare conversazione a una cena di trentenni – è avvolto da questa aura magica di coolness e rilevanza culturale.
Più disinibito che ma
iFosse anche una tavanata galattica, Heretic ha il merito indiscutibile di averci ridato grandi quantità di Hugh Grant, che non se n’era mai davvero andato, ma non era protagonista di niente, se non del mio cuore, da un bel pezzo.
Certo era divertente sentirlo autocommiserarsi per la sua performance da Oompa Loompa in CGI («Ho molti figli, ho bisogno di soldi»), vederlo comparire agli Oscar accanto a Andie MacDowell e paragonarsi a uno scroto, o calcare i red carpet di Hollywood con ostentato sdegno per tutta la faccenda: «Cosa indossi?», «Il mio vestito».
Ora però è tornato in grande spolvero, munito di un dose extra di disprezzo per il mondo e per se stesso, una posa tanto sgradevole quanto divertente che solo poche persone al mondo possono permettersi di assumere rimanendo simpaticissime. Un club piuttosto esclusivo che vanta membri illustri, tra cui figurano senz’altro Fran Lebowitz e Larry David, quest’ultimo non a caso citato dallo stesso Grant nel corso di un’intervista in cui procede a stilare un elenco di cose che lo infastidiscono: gli zaini, le persone che camminano lentamente, le borracce, gli sparafoglie.
Autorizzato anche dalla ormai veneranda età, a cui rende onore con una testa ancora piena di capelli e una faccia che mostra i segni della gravità e zero accenni di botox, Hugh Grant è tornato più disinibito che mai. Incapace di prendersi sul serio – una qualità che sarebbe un utile spunto per quasi tutti gli attori italiani – si ha l’impressione che si diverta assai a essere sé stesso un po’ ovunque, al punto che si rischia di dimenticarci che è anche un bravissimo attore e forse è solo quello che ci vuole far credere.
La missione
Ma ha 64 anni, un accento che gli garantisce totale impunità anche per le peggiori cattiverie e quello sguardo annoiato che a distanza di trent’anni dai film che lo resero famoso, ancora può far cascare un paio di mutande, forse oggi più che allora. In questa attuale versione scontrosa e amabile come non mai, rappresenta una sintesi perfetta di tutto ciò che le donne, nei secoli dei secoli, hanno sostenuto di cercare in un uomo: qualcuno che le faccia ridere, ma anche il tizio un po’ stronzo.
Sono finiti i tempi da sex symbol goffo con gli occhiali da vista e non potrebbe fregargliene di meno: vuoi mettere la soddisfazione di poter dire tutto a tutti senza alcuna vergogna? Non c’è talk show in cui non abbia raccontato un aneddoto che lo vedeva molto ubriaco o in un grave doposbronza, e non manca di ricordare al mondo che dopotutto è un vecchio arnese (sapendo benissimo di essere molto di più): «Dovremmo fare un ultimo film insieme» ha detto in un recente discorso per onorare Richard Curtis, sceneggiatore di Notting Hill, per dirne uno a caso. «Non so cosa potrebbe essere, forse Quattro funerali e un matrimonio o Il pannolone di Bridget Jones». Applausi e risate.
È intrattenimento, è spettacolo, è panna montata, ma c’è qualcosa di entusiasmante in questo signore determinato a non sembrare a tutti i costi una brava persona. Sembra quasi in missione per ricordarci che essere buoni non è di per sé un valore, soprattutto in televisione, soprattutto se ti devo stare a sentire con interesse mentre mi vendi qualcosa.
In un momento storico in cui ci si affanna tutti a mostrare la propria indiscutibile virtù, come se occorresse essere santi per svolgere anche il più cialtrone dei mestieri, è bello vedere che uno di questi saltimbanchi è ancora brillante per il puro gusto di esserlo. Dopotutto la commedia è una cosa semplice, e nessuno lo sa meglio di Hugh Grant.
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