- L’ex allenatore di Milan e Real Madrid siederà sulla panchina dei Verdeoro dal 2024. Un colpo a sorpresa che, come spesso accade, ha diviso i brasiliani. Il più critico è stato il presidente Lula, che ha duramente contestato la scelta dei dirigenti federali, affermando che bisogna credere nei talenti locali, soprattutto in Fernando Diniz, l’attuale Ct a interim.
- Sono storicamente due scuole calcistiche distanti. O jogo bonito da una parte, il catenaccio dall’altra. Eppure Italia e Brasile formano, a ben vedere, una unica grande nazione.
- La Seleção vuole tornare a vincere, a dominare, a lasciare il segno della propria estetica, senza bisogno di aggrapparsi, con struggente nostalgia, ai fasti del passato.
Il calcio in Brasile continua a essere una favola bella, malgrado lo strapotere cinico del marketing sulla bellezza epica del dribbling, anche nel paese di tutte le meraviglie del possibile e dell’impossibile. È una possibilità di riscatto per i poveri, il mito di calciatori capaci di abbaglianti prodezze, come O Rei Pelé oppure come Mané Garrincha, l’angelo dalle gambe storte che fece dettare al poeta Carlos Drummond de Andrade: «Fu un povero e semplice mortale che aiutò una nazione intera a sublimare le sue tristezze. La cosa peggiore è che le tristezze ritornano e non c’è un altro Garrincha disponibile. Ne occorre un altro che continui ad alimentarci il sogno».
Il futebol è narrazione onirica, ballata popolare, inno alla gioia, al realismo magico, al pallone che si trasforma in uno scrigno di incantesimi. E la panchina più ambita è quella della Seleçao: la nazionale verdeoro ha conquistato cinque mondiali, suo il primo posto in questa specialissima e ambitissima graduatoria, al secondo, con quattro, Italia e Germania.
Ma non vince il titolo dal 2002, dai tempi di Ronaldo il Fenomeno, e così la Federazione (Cbf) ha deciso, in occasione della Coppa America del 2024 negli Stati Uniti e in vista, soprattutto, della Coppa del Mondo del 2026 in Usa, Canada e Messico, di puntare per la prima volta nella sua storia su un tecnico italiano: Carlo Ancelotti. Uno abituato a vincere in Europa oltre che in Italia – in Inghilterra, Francia, Germania e Spagna – alzando al cielo 4 Champions League (due con il Milan, due con il Real Madrid), e mettendo nella propria bacheca personale ben 26 titoli.
Internazionalista autarchico
Un colpo a sorpresa che, come spesso accade, ha diviso i brasiliani. Il più critico è stato il presidente Lula, che ha duramente contestato la scelta dei dirigenti federali, affermando che bisogna credere nei talenti locali, soprattutto in Fernando Diniz, l’attuale Ct a interim. «Perché Ancelotti, se è cosi bravo, non ha mai guidato l’Italia? Secondo me troverebbe difficoltà anche sulla panca del mio Corinthians... Certe decisioni sono, francamente, incomprensibili». Un capo dello stato che interviene nella scelta di una federazione è singolare. L’internazionalista Lula che fa l’autarchico è un ossimoro. Ma nell’epoca in cui un pallone arriva in tutto il mondo, grazie ai diritti televisivi internazionali, il nome di don Carlito, ancora per una stagione al Real Madrid, suscita in parecchi critici e in tantissimi sostenitori un indiscutibile fascino.
Sono storicamente due scuole calcistiche distanti. O jogo bonito da una parte, il catenaccio dall’altra. Eppure Italia e Brasile formano, a ben vedere, una unica grande nazione. Tanti nostri lavoratori, spinti dalla fame e dall’utopia, sono partiti dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta per le terre brasiliane. È stata a lungo, la nostra, la seconda lingua più parlata da Porto Alegre a San Paolo, da Rio de Janeiro a Belo Horizonte. Un mio vanto è quello di essere figlio, nipote e pronipote di migranti veneti.
E le stagioni in un quartiere paulistano, Cambuci, dove sono nato, mi ha insegnato, giocando a palla per strada con coetanei mulatti, ebrei, musulmani giapponesi, che il razzismo è per davvero qualcosa di inutile, stupido, immondo. La mia società del cuore, il Palmeiras, venne fondata nel 1914 da nostri connazionali con il nome di Palestra Italia. Nel 1942, con l’entrata nella seconda guerra del Brasile al fianco dell’America e contro il nazifascismo, la Palestra si trasformò in Palmeiras: molti simboli italiani dovevano sparire. E più di quattrocento soldati brasiliani, della Força Expedicionária Brasileira, sono morti sull’Appenino tosco-emiliano per contribuire alla nostra Liberazione e alla lotta partigiana. Al museo storico di Montese, nel modenese, che raccoglie oggetti, divise, ricordi, fotografie di quegli eroici militari, è impossibile non commuoversi.
Oriundi e fuoriclasse
Tifava per la “Palestra” anche Zélia Gattai, moglie di Jorge Amado e autrice della splendida autobiografia Anarchici, grazie a Dio: questo grazie ai suoi genitori Angelina ed Ernesto, emigranti di origini toscane e venete. E il favoloso José Altafini, centravanti del Verdão e campione del mondo con la Seleção nel 1958, prima di dare spettacolo con Milan, Napoli e Juventus, ha ricevuto, poco tempo fa, la cittadinanza onoraria di Giacciano con Baruchella, in provincia di Rovigo: il paese da dove partì suo nonno materno, Luigi Riccardo Nazzareno, per lo stato di San Paolo. Altafini, da oriundo, ha vestito anche la maglia azzurra, al Mundial cileno del 1962.
Nel Palmeiras ha giocato, per un solo campionato, anche un centrocampista italiano, ex Parma e Torino: Marco Osio, 20 presenze, una sola rete nel 1995-1996. Inutile elencare i tanti fuoriclasse brasiliani venuti da da noi: Sormani, Zico, Ronaldo, Edinho, Dirceu, Ronaldinho, Leo Júnior, il gramsciano Dottor Sócrates, Amarildo, Falcão, Toninho Cerezo, Dunga, Julinho, Rivaldo, Roberto Carlos, Nené, Casagrande, Taffarel, Jair, Cinesinho, Branco e via continuando. Pier Paolo Pasolini adorava gli assi brasiliani. Scriveva nel 1971: «Chi sono i migliori dribblatori del mondo e i migliori facitori di goal? I brasiliani.
Dunque il loro calcio è un calcio di poesia: ed esso è infatti tutto impostato sul dribbling e sul goal». Oggi sono tanti gli studenti e i lavoratori brasiliani a venire da noi per cercare fortuna e futuro.
Tornare a vincere
Perché è stato scelto Ancelotti, dunque? Perché rappresenta una garanzia di successo, la sua carriera parla chiaro, perché è stato il vice di Arrigo Sacchi ai tempi della rivoluzione calcistica del visionario vate calcistico di Fusignano, perché ha giocato a football, e ad altissimi livelli, dai tempi del contropiede, perché ha allenato numerosi calciatori brasiliani, perché è un “Freud da spogliatoio”, capace di motivare emotivamente e psicologicamente i suoi atleti senza la necessità di alzare la voce. Gli basta uno sguardo, e fine delle trasmissioni.
La Seleção vuole tornare a vincere, a dominare, a lasciare il segno della propria estetica, senza bisogno di aggrapparsi, con struggente nostalgia, ai fasti del passato. Resta, come una cicatrice, l’umiliazione subita al mondiale in casa, nel 2014: 7-1 per la Germania, con il ritorno dei fantasmi del Maracanazo, il successo nella partita decisiva per la Coppa del 1950 dell’Uruguay, a Rio de Janeiro: 2-1, reti di Schiaffino e Ghiggia, con il portiere Moacyr Barbosa destinato a diventare un “eroe tragico”, un emarginato, un condannato senza colpe.
Ancelotti farà bene. È un professionista esemplare e un uomo straordinariamente perbene.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo all’inizio della sua carriera, centrocampista dallo straordinario senso tattico, ora fine dicitore, ora elegante faticatore. Ed ero presente, al Mundialito in Uruguay, nel 1981, al suo primo e unico gol in azzurro, proprio al debutto: contro l’Olanda. A Montevideo, al termine di quella manifestazione, Sócrates mi chiese di mandargli, a San Paolo, Lettere dal carcere di Antonio Gramsci: «Voglio leggerlo in italiano. È lui, da sempre, l’idolo della mia vita». Italia e Brasile, quante storie da raccontare.
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