Facciamo un gioco. Alzi la mano chi conosce Joana Choumali, Alan Chapman, Stephen Burridge, Zun Lee o Corey Arnold. Siamo certi che, se si escludono gli addetti ai lavori del mondo della fotografia, la percentuale di risposte affermative sarà piuttosto bassa.
Eppure abbiamo preso ad esempio autori che all’estero vincono premi, sono protagonisti di mostre, pubblicano libri, sono oggetto di interesse di collezionisti e del pubblico. All’estero, appunto, dove il mondo della cultura è abituato a fare sistema e a operare in un cantiere aperto a ricerche sulla produzione contemporanea, dove le amministrazioni e i governi sostengono l’arte, la fotografia, le fondazioni, le fiere, ma non qui.
Questo è il paese dove organizzano gli Stati generali della fotografia e, a distanza di tre anni, ben poco è accaduto da quella promettente assemblea che avrebbe dovuto definire un piano di sviluppo economico e culturale del settore.
Ci avevano creduto studiosi, conservatori, docenti, critici, enti, curatori e gli stessi fotografi, ed erano seguiti una miriade di altri convegni in tutta Italia, ma quel piano strategico, e i suoi buoni propositi, venne drasticamente interrotto da un cambio di governo.
Manca di nuovo una cabina di regia, mancano i soldi, le forze, una visione, e finiamo sempre per puntare su guadagni sicuri e per celebrare i soliti nomi che, per carità, sono sacri e guai a non conoscerli, però sarebbe bello che si provasse ad andare oltre Gianni Berengo Gardin, Henri Cartier-Bresson, Ferdinando Scianna o Sebastiao Salgado.
Rieducare il pubblico
Lo ha scritto con arguzia chirurgica Luca Fiore sulle pagine del Foglio qualche giorno fa, segnalando la recente mostra che Contrasto propone al Palazzo Reale di Milano, dedicata a Margaret Bourke-White: «Eppure ce ne sarebbero di grandi fotografe che negli ultimi trent'anni hanno fatto qualcosa di importante».
Un’analisi provocatoria, la sua, che ha aizzato colleghi generando un’ondata di polemiche sulla piazza virtuale di Facebook, dove passa gran parte del tempo chi ha poco da fare nella vita reale.
Fiore ha toccato nervi scoperti, ma se quella della prima fotogiornalista di Magnum è un grande classico tra le mostre e nessuno vieta di ricordarne il mito, serve ora colmare uno squilibrio e creare un’alternanza che dia spazio ai contemporanei, facendoli uscire da quel punto cieco dove nulla viene apprezzato e visto.
La colpa non è da attribuire a chi le mostre è costretto a pagarle, ospitarle, curarle, allestirle. È normale che si tenda a puntare su un evento che generi un guadagno assicurato da buona affluenza di visitatori.
Però quel pubblico andrebbe rieducato ad apprezzare anche le recenti generazioni. Scommettere sulla produzione giovane è come giocare in Borsa, è un investimento per il futuro. Ed esiste un esercito di talentuosi autori di cui quasi si ignora l’esistenza e che, per mantenersi, sono costretti a rivolgersi altrove.
Contattano riviste straniere per rimediare editoriali, emigrano in Francia o in Germania per farsi strada, come Valentina Murabito, artista catanese trasferita a Berlino, o Simone Lezzi che a Londra ha fondato Cre8 Studio, o ancora Paolo Verzone, membro dell’agenzia VU che lavora tra Barcellona e Parigi.
Poi ci sono schiere di fotogiornalisti votati oggi a competere nei contest internazionali più che a proporre i loro portfolio alle riviste, con conseguente appiattimento nel gusto e nello stile dell’intera produzione mondiale.
Come potranno, i fotografi under 30, diventare i grandi nomi di domani, ora che la recessione ha definitivamente travolto l’editoria riducendo i budget per la ricerca iconografica? Chi sosterrà il loro lavoro in un mondo dove la cultura occupa un gradino tanto basso delle urgenze da risolvere? Sarebbero diventati grandi maestri, se avessero iniziato oggi la loro carriera, Federico Garolla, Robert Capa o David Bailey, senza la garanzia dei commissionati assegnati dai magazine?
Forse è ora che questa arte, per essere classificata come tale, parta da noi, si stacchi dal mercato e valorizzi di più l’aspetto culturale che dovrebbe connotarla. Ci vuole un po’ di coraggio per sanare questo clima culturale impaurito, qualcuno che non investa solo nell’usato sicuro, ed è ora che si senta più forte la responsabilità di offrire qualità a chiunque ci osservi.
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