Per secoli i filosofi hanno cercato di decifrare il mistero della risata. Partendo da due assunti: che il riso sia inestricabilmente legato all’umorismo, al comico, e che sia un fenomeno solo umano. Un neuroscienziato, Fausto Caruana, e un’etologa, Elisabetta Palagi, rovesciano questi due punti di partenza
Non appena si è profilata la candidatura di Kamala Harris alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump ha cominciato a tentare di screditarla, e questo era abbastanza prevedibile. Meno prevedibile appare la strada che ha scelto d’impeto, quella di soprannominare Harris “laughing Kamala”, “la Kamala che ride”. Dietro questa designazione stanno secoli di pregiudizi sul riso e la risata. Che il riso non si addice a chi è veramente potente, che i dominatori non ridono. Che ridere è un segno di debolezza, rivela una sudditanza psicologica. Che chi occupa posizioni di responsabilità deve non solo essere, ma apparire serio. Dietro però c’era come al solito un pregiudizio sessista: che Kamala Harris ride molto perché è una donna, e il riso nella donna è un segno di inferiorità, si accompagna a una posizione subordinata quando non è indice di debolezza mentale. Infatti, Trump dice senza mezzi termini che Kamala Harris e Nancy Pelosi sono “pazze”.
Se andate in rete troverete decine di video che mostrano Harris mentre ride, ma sicuramente vi faranno un effetto ben diverso. Sono risate aperte, squillanti. Evocano gioia di vivere, trasmettono un messaggio rassicurante. “Chi ride non può mordere” dice un vecchio detto (che forse, vedremo, non è proprio confermato dall’etologia).
Lo studioso russo delle fiabe e del folklore Vladimir Propp rovesciava in positivo i pregiudizi appena visti: “Il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso”. Il riso come messaggio positivo, di apertura alla vita e di ricerca di collaborazione con gli altri.
Ma sia che la leggiate in negativo o in positivo, la risata vi apparirà in primo luogo uno strumento di comunicazione sociale. Difficilmente sarete portati a pensare che Kamala Harris rida perché è autenticamente divertita, perché le hanno raccontato una barzelletta o ha ascoltato qualcosa di divertente Certo, può anche questo essere il caso. Ma in primo luogo la risata è un modo (giocoso, allegro, rilassato) di comunicare con gli altri. Un modo per interagire con loro, proprio come lo è il linguaggio, col quale si interseca continuamente: avete notato come nelle interviste l’intervistato tenda a intervallare le parole con brevi risate, o risatine, con sorrisi, e quanto frequentemente ridiamo mentre siamo con amici, indipendentemente dal fatto che noi o loro abbiamo detto qualcosa di umoristico?
L’umorismo c’entra poco
Fausto Caruana ed Elisabetta Palagi, nel libro Perché ridiamo, uscito da poco dal Mulino, compiono un’operazione produttiva e spiazzante: separano nettamente il tema dell’umorismo, del comico, del motto di spirito, da quello della risata, e risalgono innanzi tutto alle motivazioni di questa curiosa ma universalmente diffusa manifestazione espressiva, fatta di convulsioni respiratorie fragorose e irresistibili, che sembrano togliere il fiato ma che invece sono desiderate e piacevoli. Per capire perché ridiamo, dicono, è meglio non partire dal riso causato dal divertimento che ci produce ciò che è comico, ma dai contesti in cui ridiamo e dalla funzione sociale della risata.
Nel compiere questa dislocazione, che sembra banale ma è decisiva, sono aiutati dalla loro formazione: Caruana è un neuroscienziato, uno che studia il funzionamento delle nostre cellule cerebrali, mentre Palagi è un’etologa che studia il comportamento animale. Nessuno dei due è un filosofo, e i filosofi, che sono stati nei secoli quelli che hanno cercato di svelare il mistero della risata, hanno per lo più mescolato i due problemi, l’umorismo e la risata, col risultato di creare teorie spesso insoddisfacenti e nel migliore dei casi parziali.
Umberto Eco, che non per nulla avrebbe poi fatto della diffidenza verso il riso la protagonista nascosta del Nome della rosa, in un vecchio articolo sull’Espresso, chiamava il riso «Il nemico dei filosofi». Ai filosofi, in realtà, interessava non il riso ma il comico, e troppo spesso hanno dato l’impressione di considerare le due cose sovrapponibili. Il fatto è che hanno sempre puntato non propriamente al ridere, ma a quella che è solo una delle tante sue cause, l’umorismo.
Il grande filosofo francese Henri Bergson, ad esempio, scrive all’inizio del Novecento un saggio sul significato del comico, ma lo intitola Il riso. E quando la confusione non la fanno loro, gliela si fa fare: un libro di Terry Eagleton, il critico letterario inglese, in originale si chiamava L’umorismo, ma in traduzione, pochi anni fa dal Saggiatore, è diventato in italiano Breve storia della risata.
Non solo umana
Caruana e Palagi, dunque, cercano altrove. Dagli studi di un neuroscienziato estone, Jaak Panksepp, ricavano un punto di partenza importante. Non siamo, noi umani, i soli a ridere o almeno ci sono in altre specie fenomeni paragonabili al riso. I ratti, ad esempio, quando giocano e si divertono, quando sono rilassati e soddisfatti, emettono delle vocalizzazioni rapidissime e acute. E i primati, le scimmie, ridono o sorridono quando giocano, o quando vogliono comunicare una disposizione non offensiva, trasformando la posa della bocca a denti stretti che potrebbe invece evocare aggressività.
Da uno psicologo sociale, Robert Provine, i due autori apprendono che il requisito principale per innescare una risata nell’homo sapiens è solo raramente lo humor. Nella stragrande maggioranza dei casi quello che conta è il contesto sociale. Il riso funziona innanzi tutto come mezzo di comunicazione, proprio come negli animali non umani. Si ride con gli altri anche se non siamo particolarmente divertiti. Il riso è una sorta di lubrificante della conversazione ordinaria. La risata ha una funzione che gli etologi chiamano affiliativa: ci avvicina agli altri.
Lo dimostra anche il fatto che la risata è contagiosa. Ridiamo molto di più quando siamo in compagnia che quando siamo da soli. I produttori di sitcom lo hanno scoperto già degli anni Cinquanta, quando hanno incominciato a inserire risate preregistrate nelle trasmissioni televisive, con un’invadenza che ormai ci appare irritante ma che evidentemente funziona. Se sentiamo qualcuno ridere, siamo portati a ridere con lui, così come se in un gruppo qualcuno sbadiglia presto sbadiglieranno anche gli altri.
Quando ridere è deridere
C’è un tipo di risata, però, che entra a fatica negli schemi interpretativi di Perché ridiamo. È la risata di scherno, di riprovazione, la risata della satira e del sarcasmo. La risata maligna e aggressiva. Nell’Iliade, gli dèi ridono di Vulcano, che è zoppo. Nella commedia si ride di personaggi volgari e inferiori. Il riso sarà anche un lubrificante sociale, ma spesso è anche una condanna sociale. Il riso come castigo. La prima teoria filosofica del riso la dobbiamo a Thomas Hobbes (il filosofo dell’Homo homini lupus), e vede nel riso l’espressione della soddisfazione per la propria superiorità verso gli altri. E la teoria di Bergson, in qualche modo, andava nella stessa direzione: il riso come sanzione sociale nei confronti di comportamenti che con la loro rigidità e meccanicità mettono in questione il buon funzionamento della società.
Come la mettiamo? Caruana e Palagi recuperano un po’ fortunosamente anche il ridere che è deridere nei loro schemi, sostenendo che ridere di qualcuno è pur sempre affiliarsi a un altro gruppo, quello dei derisori. Una risposta non del tutto soddisfacente. Del resto, quando i due autori tornano dalla risata all’umoristico, il bottino è scarso. L’umorismo provoca una sensazione piacevole e rilassata, come la risata, e quando ridiamo per qualcosa di divertente si attivano più o meno le stesse aree cerebrali della risata affiliativa.
Ma potrebbe non essere così? Forse anche una volta spiegata la funzione sociale della risata resta da capire il suo legame con il comico, e la causa, anzi le molteplici cause, di quest’ultimo fenomeno, che implica l’entrata in gioco di complessi procedimenti cognitivi, questi sì, con tutta probabilità, esclusivi della nostra specie.
In questi casi prima si deve capire, poi si ride. Sarà capitato a tutti noi di trovarci al cinema in un paese del quale non padroneggiamo fino in fondo la lingua. Se il film è un film comico, sono dolori. Noi non capiamo molte battute, tutti ridono, ma noi no. E qui il contagio della risata non funziona, anzi l’esperienza è frustrante e anche un po’irritante. Forse l’umorismo non è nemico solo dei filosofi, come diceva Eco, ma di chiunque si avventuri a spiegarlo.
Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale (Il Mulino 2024, pp. 184, euro 2024) è un libro di Fausto Caruana ed Elisabetta Palagi
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