- Dagli anni Novanta Kapoor (l’artista anglo-indiano) indaga sulle capacità del nero di assorbire la luce. Dal 2016 utilizza il Nero Kapoor, materiale costituito di nanotubi di carbonio che assorbe quasi del tutto le radiazioni luminose e in grado di ingannare il nostro occhio.
- Kapoor rimarca il significato della mancanza di pieghe nei lavori realizzati con il suo nero: se la piega rappresenta l’essere, ricoprirla di un nero assoluto che la rende invisibile equivale a indagare l’inafferrabilità e l’instabilità dell’essere.
- Questo ci fa riflettere sul fatto che la pelle del corpo che egli rimuove in altri lavori definisce il confine tra spazio interno e quello esterno. Ma lo spazio interno non contiene solo materia organico, è uno spazio potenzialmente infinito in cui si generano il pensiero, le sensazioni, la creatività, i sentimenti.
Il lavoro di Anish Kapoor è una miniera di materiale prezioso per speculazioni che vanno dall’estetica alla filosofia, dalla mitologia alla spiritualità, dalla relazione tra arte e scienza alla sfera più intimista, fino alla sensualità e alla sofferenza della carne. La sua è un’arte sfuggente per la quale ogni tentativo di definizione risulta riduttivo. Basti pensare a Descent into Limbo l’opera presentata nel 1992 a Kassel in occasione di documenta IX. Lo spettatore accedeva attraverso una porta a una costruzione cubica di cemento sul cui pavimento trovava una buca circolare, con un diametro di 2,5 metri, di un nero profondo.
La qualità del nero utilizzato poneva subito degli interrogativi sulla natura di quel che si stava osservando, se si fosse cioè in presenza di una sagoma nera piena o di una sorta di apertura sull’abisso. Istintivamente si era portati ad avvicinarsi fin sull’orlo di questa apertura misteriosa e a sporgersi per guardare nella sua profonda oscurità. La discesa nel limbo è un tema presente nella storia dell’arte, e in questo caso Kapoor si è ricollegato alla Discesa di Cristo al limbo di Andrea Mantegna del 1492. Nella tempera su tavola di Mantegna, Cristo è rappresentato di spalle mentre si sporge verso l’ingresso di una grotta buia.
Sprofondare nel buio
La ricerca di Kapoor è sempre un viaggio di andata e ritorno in dimensioni misteriose e contrapposte. Se con opere come Descent into Limbo oppure Discension (2004) – una pozza di d’acqua scura che gira incessantemente intorno all’occhio di un vortice – ci fa virtualmente sprofondare in luoghi bui e misteriosi, con Ascension (2003) ci troviamo ad alzare lo sguardo verso qualcosa di altrettanto inafferrabile.
Si tratta di una colonna di fumo bianco in continuo movimento ascensionale, che talvolta si nasconde ai nostri occhi, resa possibile da uno studio scientifico dei fenomeni e nello stesso tempo carica di significati e simbologie che poco si accordano con il rigore della ricerca scientifica.
Queste dinamiche non sono estranee al sapere contemporaneo. Non va dimenticato che la scienza moderna non ha alcuna pretesa di dare dimostrazioni assolute, ma offre spiegazioni probabilistiche di un divenire che spesso assume l’aspetto del caos. Piuttosto che dimostrazioni deterministiche legate al rapporto causa-effetto, la scienza privilegia oggi teorie di tipo statistico, basate su un calcolo delle probabilità.
Ritroviamo in Kapoor lo stesso atteggiamento degli scienziati moderni, che se da un lato non rinunciano al rigore di un enunciato matematico, dall’altro sono perfettamente consapevoli che il loro sapere viene applicato a fenomeni dei quali non si riesce a dare spiegazione definitiva.
Questo ci aiuta a capire perché Kapoor, pur utilizzando anche tecnologie e modelli scientifici avanzati accosta l’informe materico magmatico alla manipolazione di forme geometriche. Non c’è nessuna contraddizione, dunque, tra i diversi cicli di lavori, tra quelli rigorosamente geometrici e quelli che si manifestano come masse magmatiche la cui forma, come si è detto, non si sottrae alle probabilità di un divenire che spesso assume l’aspetto del caos.
La cera rossa
Un esempio dell’irrompere del caos nell’opera di Kapoor ci viene da Shooting into the Corner, installazione site-specific presentata per la prima volta nel 2008. L’opera si realizza tramite un cannone che spara a intermittenza cariche cilindriche di cera rossa nel punto di congiunzione di due pareti: l’angolo, e nella mostra alle Gallerie dell’Accademia di Venezia un intero ambiente, si riempie a poco a poco di una massa informe che lascia tracce ovunque.
La cera rossa sparata dal cannone nell’angolo che congiunge due pareti evoca tanto la carne macellata quanto la materia organica pronta a prendere forma, la placenta insanguinata appena espulsa, che ha in sé vita e morte.
Lo stesso Kapoor ha spiegato in passato che l’interesse per il rosso era dettato dal potenziale ritualistico di questo colore, che esprime tanto il senso della vita quanto quello della morte. «Nel mio lavoro il significato di bellezza e quello di morte si riconciliano», mi ha detto in un’intervista pubblicata nel 2000, «cerco di dare vita a una vera esperienza di bellezza, di mostrare sia l’esistente, sia la sua fine».
Shooting into the Corner, riproposta adesso a Venezia, è concepita come catalizzatrice di energia metafisica. Per altro verso, nella performance che porta alla realizzazione dell’opera ambientale, il rumore dello sparo si contrappone al silenzio interiore che caratterizza altri lavori dell’artista, tra i quali i volumi in cera rossa realizzati a partire dal 2003 con un braccio meccanico, con piastre sagomanti o con altri macchinari dal sapore industriale che rimangono parte integrante dell’opera, non esaurendo il loro ruolo nell’azione di modellare la forma.
Infatti, così come per essere lanciati contro la parete i proiettili di cera rossa necessitano di un cannone, il volume di cera che aspetta di assumere la forma predisposta dall’artista ha bisogno del braccio meccanico e delle piastre sagomanti. Per altro verso, l’elemento meccanico e le piastre sagomanti non avrebbero ragione di esistere senza la cera da modellare.
Carne viva
Nel 2014 Kapoor ha dato vita a cicli di lavori che appaiono come massa di carne viva intrisa di sangue. Quelle del ciclo Keriah si presentano come altorilievi di grandi dimensioni appesi a parete come quadri. Il titolo di questi lavori fa esplicito riferimento all’usanza ebraica di indossare un indumento strappato per una settimana a partire dal funerale di una persona cara.
La lacerazione delle vesti è una manifestazione del lutto che ha origine dai racconti biblici. Nella Genesi, per esempio, quando Giacobbe riconobbe la tunica intrisa di sangue di suo figlio Giuseppe e lo credette morto, si stracciò le vesti, si pose un cilicio attorno ai fianchi ed entrò in lutto per molti giorni. In questo caso Kapoor ha ricondotto il suo lavoro a una narrazione già presente nella storia dell’arte occidentale.
La lacerazione delle vesti come manifestazione del lutto è stata infatti rappresentata anche da Giotto nella Crocifissione della cappella degli Scrovegni. Nell’affresco trecentesco gli angeli volano intorno alla croce manifestando la loro disperazione: uno di loro strappa le proprie vesti mentre un altro angelo raccoglie il sangue che sgorga dalle ferite.
In questi lavori il rapporto con il corpo si manifesta con masse magmatiche che evocano la carne. Contestualmente non ha mai rinunciato a realizzare un’arte che, facendo sovente riferimento alla storia dell’arte, alle narrazioni mitologiche e alle diverse forme di religiosità, incarni tra i suoi significati espressioni di spiritualità. I lavori del ciclo di cui si è appena detto riportano il rito al suo significato originario di lacerazione interiore che crea un dolore fisico di cui la keriah è una manifestazione simbolica.
In altri lavori realizzati successivamente – presenti a Venezia – il titolo richiama la narrazione di Marsia, il sileno che, sconfitto da Apollo in una gara musicale, venne scorticato vivo: il rosso irrompe violentemente squarciando la forma e portando con sé la memoria della carne priva della copertura della pelle, con i suoi muscoli, legamenti, cartilagini.
In queste come in altre opere, nelle quali non compare mai la figura, il soggetto trascende (ma non nega) la narrazione e la sua dimensione temporale, generando una catena di associazioni e suggestioni che incarnano significati che si spingono ben oltre la specificità del soggetto.
Il nero Kapoor
Dal 2016, con le opere realizzate con il Vantablack, noto in ambito artistico come Nero Kapoor, l’artista compie un ulteriore passo verso l’inafferrabilità della forma.
Dagli anni Novanta Kapoor indaga sulle qualità del nero e sulla sua capacità di assorbire la luce e, come si è detto, è solo dal 2016 che utilizza il Vantablack, materiale costituito di nanotubi di carbonio, che assorbe quasi del tutto le radiazioni luminose.
Grazie a questa proprietà, un oggetto ricoperto di questo nero profondo è in grado di ingannare il nostro occhio. Nelle opere più recenti, presentate adesso a Venezia, i Non-Object Black, ogni rilievo o piega della materia sparisce, al punto che un oggetto tridimensionale può essere percepito come bidimensionale da un punto di osservazione frontale. Se in un primo momento pensiamo di trovarci dinanzi a forme geometriche semplici – cerchi, quadrati, rettangoli, ovali, triangoli –, cambiando punto di osservazione il volume si rivela, ma le forme diventano sfuggenti proprio in virtù del nero profondo che le ricopre.
Questi lavori rappresentano un ulteriore sviluppo rispetto alle sculture specchianti, i Non-Object in acciaio ritorto di cui non si riesce a cogliere appieno la forma. Anche con quelle opere Kapoor ha portato avanti la sua personale indagine sulla capacità di una forma volumetrica concreta di ingannare l’occhio, di non lasciarsi percepire appieno. In quel caso però, per ottenere l’obiettivo, ha sfruttato la torsione dell’acciaio e le proprietà delle superfici specchianti.
Soffermarsi sui Non-Object di acciaio lucidato aiuta comprende perché la ricerca di Kapoor ha trovato il suo sbocco naturale nelle opere realizzate con il Nero Kapoor – i Non-Object Black – che ci consentono di meglio comprendere, come vedremo più avanti, quali e quante potenzialità conteneva concettualmente il Quadrato nero su fondo bianco di Malevič (1915).
In altre parole, tanto il quadrato nero di Malevič aiuta oggi a comprendere i Non-Object Black quanto queste ultime aiutano a comprendere oggi le potenzialità contenute nelle opere realizzate da Malevič nel periodo suprematista. Rispondendo alle domande poste da Malevič sulle capacità di un’arte nuova di raggiungere un suo “grado zero”, Kapoor apre a nuove questioni con cui l’arte non può fare a meno di confrontarsi.
Malevič voleva giungere a una rappresentazione di un mondo senza oggetti, “che non avesse nulla a che vedere con la natura” e che si sottraesse a ogni interpretazione simbolica. Un mondo nel quale il colore è visto come un prodotto della scomposizione della luce che definisce uno spazio all’interno della tela. Malevič vede poi l’opera come il frutto di un’intuizione che esclude la dimensione interiore (presente invece in Kandinskji).
Quest’idea di azzeramento totale della pittura nasce da un progetto realizzato nel 1913 per una rappresentazione teatrale. Ecco, il quadrato nero è per lui un sipario che, aprendosi, svela l’imprevedibile, portando con sé tanto il Nulla quanto la rappresentazione dell’infinito da cui scaturisce l’idea del caos.
Il Nulla e l’Infinito
Certamente il percorso che dall’opera di Malevič ci porta oggi ai Non-Object Black di Kapoor trova nel Novecento dei punti di passaggio significativi nell’opera di altri artisti. Un posto di rilievo lo occupano i Black Paintings di Ad Reinhardt (il primo è del 1956), i cosiddetti monocromi neri che però tali non sono in assoluto. Per ottenere variazioni impercettibili di nero su nero su ampie aree definite da forme geometriche come il quadrato, il rettangolo o la croce, Reinhardt utilizzava i pigmenti in modo da avere un diverso assorbimento della luce.
Reinhardt ha posto il problema di come ottenere un monocromo inglobando, seppure ridotta ai minimi termini, una griglia. In quest’ottica la griglia diventa l’equivalente della figura che Malevič voleva azzerare nel suo quadrato nero. Lo stesso Reinhardt, riferendosi ai suoi Black Paintings, ha chiarito che stava «semplicemente facendo l’ultimo quadro che fosse possibile fare».
I Non-Object Black di Kapoor non solo dimostrano che Reinhardt non ha raggiunto il suo scopo, ma che dall’interazione tra scienza e arte potrebbero nascere molti nuovi “ultimi quadri”.
Questo ci riporta alla mente che il viaggio a tappe che dal quadrato nero di Malevič ci conduce ai Non-Object Black di Kapoor un posto di rilievo lo occupa Lucio Fontana. E non solo per i suoi buchi (1948) e i suoi tagli (1958) sulla tela che manipolano lo spazio vuoto come fosse materia.
Fontana è stato un sostenitore del rapporto tra arte e scienza e nel 1947 firmò con gli Spazialisti italiani un manifesto in cui affermava di rifiutarsi «di pensare che scienza e arte siano due fatti distinti, che cioè i gesti compiuti da una delle due attività possono non appartenere anche all’altra».
E concludeva: «Gli artisti anticipano gesti scientifici, i gesti scientifici provocano sempre gesti artistici». È incredibile pensare oggi a quanto lungimirante sia stato Fontana, ma lo è altrettanto prendere atto che, con i suoi Non-Object Black, Kapoor si sia spinto oltre quanto Fontana avrebbe potuto solo immaginare.
Nella scultura tradizionale sono il chiaroscuro e il gioco delle ombre a determinare la percezione del volume. Nelle opere realizzate da Kapoor con il suo nero non c’è nulla di tutto questo. Non potrebbe essere diversamente, visto che non riflettono la luce.
Da qualunque angolazione lo si guardi, il volume coperto di Nero Kapoor apparirà comunque privo di rilievi: nessuna piega, nessuna ombra, nessun dettaglio. Ecco, se la piega rappresenta l’essere, ricoprirla di un nero assoluto che la rende invisibile equivale a indagare l’inafferrabilità e l’instabilità dell’essere.
Questo ci fa riflettere sul fatto che la pelle del corpo, che egli rimuove in altri lavori, definisce il confine tra lo spazio interno e quello esterno. Ma lo spazio interno non contiene solo materia organica, è uno spazio potenzialmente infinito in cui si generano il pensiero, le sensazioni, la creatività, i sentimenti.
L’impianto teorico è fortemente concettuale e trova le sue soluzioni formali nelle possibilità offerte dalla scienza. Non per questo Kapoor, lo si è detto, esclude che le sue opere abbiano un rapporto con narrazione e simbolo.
Come egli stesso chiarisce, la sua indagine sulla forma e sulla sua percezione “porta l’oggetto oltre l’essere”, nello stesso tempo la sua ricerca apre a una dimensione talmente problematica da non escludere le dinamiche esistenziali ed emozionali che da sempre hanno accompagnato il rapporto dell’uomo con la mitologia e la spiritualità.
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