- Provare a definire la natura dell'opera di Anne Carson, saggista, poetessa, docente di lettere classiche, è un esercizio che si presenta molto difficile e che non fa che incrementare i suoi interrogativi man mano che si leggono con attenzione le sue opere.
- Carson ha una conoscenza straordinaria della cultura antica, ma nello stesso tempo non si limita a questo, riuscendo nel compito di collegare i fantasmi di questo passato remoto al tempo presente.
- Il valore letterario straordinario che ammanta ogni opera di Carson sta proprio nella sua arte di evocare ciò che appare sfuggente e la possibilità di trasferire sulla pagina ciò che all’apparenza non può essere trasformato in un segno tangibile.
Provare a definire la natura dell'opera di Anne Carson, saggista, poetessa, docente di lettere classiche, è un esercizio che si presenta molto difficile e che non fa che incrementare i suoi interrogativi man mano che si leggono con attenzione i suoi libri e si affronta la sua originale commistione di saggio e poesia, un materiale letterario ibrido che testimonia una ricerca incessante.
Anche provando a utilizzare un’antica e utile sentenza di Archiloco, poi ripresa da Isaiah Berlin in un suo celebre saggio, «la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande», e quindi a incasellare lo spirito di Carson tra la volpe, «che persegue molti fini», e il riccio, che «riferisce tutto a una visione centrale», la difficoltà rimane.
Ma questa situazione, se valutata da un altro punto di vista, esprime la grandezza di un’autrice che oltrepassa gli steccati di genere e rende onore alla complessità della letteratura. Perché sicuramente Carson ha una conoscenza straordinaria della cultura antica, ma nello stesso tempo non si limita a questo, riuscendo nel compito impossibile di dare concretezza a una parola sconosciuta nelle sue forme foniche, eppure così affascinante e ricca di rimandi, e collegare i fantasmi di questo passato remoto al tempo presente inserendosi proprio tra gli spazi bianchi, le alterità insanabili, che sfuggono alla nostra mente.
Questo procedimento appare con forza immediata già nel primo libro di Carson, Eros il dolceamaro (tradotto da Patrizio Ceccagnoli e pubblicato da Utopia, così come le altre sue opere dall'andamento saggistico) dove la scrittrice canadese esplora le pieghe e le declinazioni dell’amore a partire da un celebre verso di Saffo che definisce l’amore, appunto, «dolceamaro», nello stesso tempo esperienza del piacere e del dolore.
L’amore, secondo l’attenta lettura che fa Carson degli antichi, da Saffo a Platone, e dei moderni, da Dante fino a Montaigne, è ciò che fa scoprire il sentimento dell’assenza e della mancanza ed è proprio grazie alla cultura greca, al passaggio dai poemi della tradizione orale alla scrittura, che esplodono i significati e le declinazioni della parola e poeti e filosofi si lanciano in una «deliberata meditazione intorno al sé», quindi nella lirica d’amore.
Economia e poetica
Ma l’attenzione di Carson, come si diceva, non si ferma al mondo classico, né esclusivamente al mondo della poesia, rivelando il suo valore proprio nella creazione di risonanze e rimandi tra mondi all’apparenza incapaci di un dialogo. In Economia dell’imperduto, dove Carson prova a far comunicare l’economia e la poetica, per esempio si legge di Karl Marx e di Simonide di Ceo, di Paul Celan e di Giacomo Leopardi, di poeti appartenenti a tempi differenti e che «non hanno mai parlato la stessa lingua», ma tutti effigi di un’arte, quella della poesia, basata sulla parola lasciata sulla pagina, perduta: «forse sono poeti coloro che sperperano ciò che i loro padri avrebbero risparmiato» scrive Carson, ritrovando in quell’imperduto, in quello scarto minimo che resta quando tutto è scomparso, l’elemento invisibile da cui poi si scatena il senso generale.
Il valore letterario straordinario che ammanta ogni opera di Carson sta proprio nella sua arte di evocare ciò che appare sfuggente e la possibilità di trasferire sulla pagina ciò che all’apparenza non può essere trasformato in un segno tangibile.
Attorno a questo mistero stanno gli scritti che compongono Decreazione, appena pubblicato da Utopia, un libro che a differenza degli altri si basa su un materiale vario eppure accomunato da questa ricerca dell’assoluto.
Il nome del libro rimanda a una considerazione della filosofa francese Simone Weil, al «disfacimento della creatura che è in noi, quella creatura racchiusa nell’io e definita dall’io» (la stessa necessità di sparizione dell’io a cui rimanda la scrittrice in Economia dell’imperduto, dove annota: «C’è troppo io nella mia scrittura»), e a una concezione della morte come passaggio obbligato di uscita da sé stessi per giungere alla grazia assoluta.
I vuoti incomprensibili
Da questo slancio sono unite le tre protagoniste di uno dei testi più densi della raccolta, quello che dà il titolo al volume, che ospita oltre a Simone Weil la poetessa Lesbo e la mistica Margherita Porete, mandata al rogo nel 1310 per il suo libro «sull’audacia assoluta dell’amore», Lo specchio delle anime semplici. Queste tre donne incarnano l’idea di poesia di Carson, intesa come dissolvenza di chi scrive, generoso abbandono ai meccanismi che governano l’arte e coraggioso ingresso «in una zona di assoluta audacia spirituale».
«Studiando il modo in cui queste tre scrittrici parlano del proprio raccontare – scrive Carson –, è possibile constatare come ciascuna di loro si senta spinta a creare una sorta di sogno della distanza in cui l’io viene spostato dal centro dell’opera e il narratore scompare nel racconto».
Questo accade anche nelle liriche che compongono Fermate, un’opera poetica che prova a descrivere il deteriorarsi fisico e mentale di una madre, la distanza che non stempera il sentimento e il suo pensiero «con trasporto / della morte» in una condizione di incomprensione e tristezza che Carson descrive immaginando una scenografia di Beckett: «Tintinnio e dissolvenza lenta di giocattoli che appartengono / alla memoria / ma erroneamente appaiono qui, vagabondi e soffocati / su una pagina di dolore».
E questo desiderio di trasporre sulla pagina i vuoti incomprensibili che abitano l’esistenza si condensa nel trascinante saggio sul sonno Ogni uscita è un’entrata, dove il sonno assume le forme di «uno scorcio su qualcosa in incognito» ed è leggibile attraverso le pagine di Virginia Woolf, Elizabeth Bishop, Omero, Platone o John Keats, o nelle pagine sul «Sublime», dove Carson unisce i racconti di Omero con il cinema di Antonioni, il pensiero di Kant con le immagini di Monica Vitti, altra possibilità di uscita dalla propria individualità, plastica testimonianza di «persone selvaggiamente smarrite nella propria arte, sospinte fuori di sé, incuranti, temerarie».
Decreazione è ulteriore sigillo della grandezza di Carson, qui ancora impegnata, con successo, nel tessere una tela vertiginosa che unisce il mondo antico alla contemporaneità, spalancando interrogativi che, grazie al pungolo del suo pensiero, si alzano silenziosi e poi costanti, soffi metafisici in grado di modificare il nostro consuetudinario stare al mondo: «La totalità è senza luce, e dovrebbe essere incolore, eppure può intensificare certe domande che rimangono nel retro della mente».
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