- Nelle due scorse domeniche la nostra pagina dell’arte si è occupata del rapporto tra arte e religione. Elio Cappuccio ha affrontato la questione collocandola sullo sfondo di una riflessione filosofico-politica, mentre Giuseppe Frangi si è accostato al tema ponendolo su un piano di confine tra estetica e teologia.
- Come consuetudine su queste pagine, si dà adesso parola agli artisti. Guardando al cambio di atteggiamento che si è verificato in epoca modernista nei confronti delle narrazioni religiose che hanno caratterizzato l’arte occidentale del passato, che senso assume oggi, in epoca postmodernista avanzata, riprendere questi temi? Gli artisti si sentono a loro agio nell’affrontarli?
- È indubbio che si possono abbracciare alcuni princìpi del cristianesimo pur senza dichiararsi credenti. Lo dimostra il fatto che non mancano artisti che hanno collaborato attivamente alla realizzazione di interni delle chiese dichiarandosi atei.
Nelle due scorse domeniche la nostra pagina dell’arte si è occupata del rapporto tra arte e religione. Elio Cappuccio ha affrontato la questione collocandola sullo sfondo di una riflessione filosofico-politica, mentre Giuseppe Frangi si è accostato al tema ponendolo su un piano di confine tra estetica e teologia.
Come consuetudine su queste pagine, si dà adesso parola agli artisti. Guardando al cambio di atteggiamento che si è verificato in epoca modernista nei confronti delle narrazioni religiose che hanno caratterizzato l’arte occidentale del passato, che senso assume oggi, in epoca postmodernista avanzata, riprendere questi temi? Gli artisti si sentono a loro agio nell’affrontarli?
Il poco interesse per i soggetti legati alla religione cristiana da parte degli artisti è dovuto al fatto che la chiesa cattolica, contrastando l’aborto, il divorzio, l’omosessualità, l’eutanasia si è messa in una posizione lontana dal sentire della società contemporanea? La questione ha dunque risvolti etico-politici?
Oppure è l’aspetto ancora dogmatico del cristianesimo e cattolicesimo in particolare a creare distanza? Quando gli artisti si spingono a dare immagine a narrazioni evangeliche o bibliche, cosa li porta a farlo? È l’interesse per la storia dell’arte o per la religione? Oppure la ripresa di questi temi fa parte delle dinamiche postmoderne?
È indubbio che si possono abbracciare alcuni princìpi del cristianesimo pur senza dichiararsi credenti. Lo dimostra il fatto che non mancano artisti che hanno collaborato attivamente alla realizzazione di interni delle chiese dichiarandosi atei. Il che dimostra che l’apertura verso la trascendenza può prescindere dall’adesione a una confessione religiosa.
MARIO AIRÒ
Personalmente sono più interessato a trovare un sincretismo superiore tra materia, segno, forma e figura, che non a rielaborare, reinventare figure della tradizione iconografica. Fortunatamente quando mi sono trovato a lavorare per la Chiesa, è stato per disegnare arredi liturgici: ho potuto quindi elaborare figure evocative e allusive, senza dover modificare le mie attitudini usuali all’immagine.
Non sono un filosofo, né un teologo o un credente, eppure ho l’impressione che moltissime sfaccettature della nostra esperienza nel mondo siano permeate del nostro desiderio di trascendenza, non ultima anche la nostra spasmodica ricerca di nessi, connessioni tra le cose, intuizioni di senso.
La nostra sensibilità è in perenne osmosi con il nostro immaginario, tanto è che già nelle nostre percezioni il reale e la sua trasfigurazione sono interfacciati.
Ogni tanto capita un’esperienza di “verità”: a conclusione di un flusso di pensieri una frase si dischiude luminosa e sentiamo di essere riusciti a varcare la soglia e a penetrare nel vivo del mistero, di averlo acchiappato. Eppure la ripetizione di quel magnifico aforisma che ci aveva dischiuso il mondo, separato dall’esperienza che aveva condotto a esso, non riesce a ridarci e nemmeno a rievocarci quell’attimo di verità, ritornando a essere un mero enunciato, più o meno arguto. È come se ci fosse concesso di “entrare nel vivo” solo attraverso la poesia, come scriveva Friedrich Hölderlin (e come lo commentava Martin Heidegger).
Ritorno spesso con il pensiero all’idea delle forme simboliche di Ernst Cassirer e ai suoi sforzi di decrittarne l’origine: ho sempre avuto l’impressione che l’esserci eretti sui soli piedi abbia creato delle costellazioni dell’immaginario colossali: la verticalità e i suoi gradi, il superamento della gravità nella levità, il sentimento ascensionale dei suoni, i voli sciamanici, la trascendenza...
Quanti degli attributi che usiamo sono legati a sensazioni legate alla gravità, e le emozioni poi? È come se lo sforzo di stare in piedi avesse dato figura a tantissimi topoi del nostro essere nel mondo e del nostro modo di interpretarlo. Topoi che agiamo, quando cerchiamo di fare arte e che donano “densità” alle opere.
STEFANO ARIENTI
Ho lavorato a cinque chiese cattoliche su committenza. Considero questi miei lavori opere di arte pubblica, perché tutti vi possono accedere. Questo tipo di committenza legata ai luoghi sacri, di culto, mi porta in contesti in cui la mia identità di artista non è conosciuta. In questi casi so bene che non sto lavorando solo per me stesso, come avviene quando sono in studio, né per un pubblico che mi conosce o che comunque ha familiarità con il mondo dell’arte. Se faccio qualcosa che tocca la sensibilità di un credente ho raggiunto il mio obiettivo.
La sensibilità che esprime una chiesa medievale è diversa da quella che si riscontra in una chiesa rinascimentale o barocca. Il mondo dei simboli è ogni volta elaborato con linguaggi diversi, che esprimono una diversa sensibilità. Non mi fermo sul presente, cerco di lasciare un segno che possa essere interpretato positivamente anche in futuro. Questi miei interventi non devono soddisfare me, ma devono avere vita propria in uno spazio pubblico di condivisione, dove chiunque possa interpretarli.
Non sono cattolico, mi considero un ateo. Non mi riconosco in nessuna confessione e nello stesso tempo le rispetto tutte. Ovviamente conosco la simbologia cristiana, che cerco di mettere in sintonia con una sensibilità contemporanea. Non penso che i simboli vadano usati in maniera diretta, né penso sia importante che le persone li riconoscano. Lo è invece porre le basi per una nuova simbologia.
Le chiese sono frequentate anche da praticanti non credenti, così come ci sono credenti non praticanti che non frequentano le chiese. L’umanità è complessa. Mi rapporto alle religioni tradizionali per definire la mia religione personale. Le religioni si evolvono e un giorno la mia religiosità sarà più facile da riconoscere.
MATTEO FATO
Se l’arte religiosa nasce dal contrasto tra il principio personale e interiore di genialità e quello esteriore e storico di rivelazione, allora non è richiesta fede per dipingere un quadro religioso. Basterebbe l’ammirazione, non l’imitazione di Cristo, oppure un’adesione mitologica alla teologia.
L’unico quadro di soggetto religioso che ho dipinto finora, in realtà non interamente religioso, ma solo per metà, è Sulla differenza fra genio e apostolo (ritratto di Gianni Garrera, filologo e traduttore), del 2019. Metà del dipinto conteneva il ritratto di Gianni Garrera, secondo i dettami della ritrattistica metafisica, con esattezza una parodia del Portrait de Guillaume Apollinaire (1914) di Giorgio De Chirico, in cui il mistificato ritratto del poeta indossava degli occhiali scuri da sole in memoria della cecità di Tiresia (in cambio della perdita di vista, l’indovino Tiresia aveva ricevuto il carisma della preveggenza) e dell’accecamento di Edipo re (in conseguenza dell’eccesso di conoscenza). Questa parte riguardava il principio di genialità. L’altra metà, dedicata al principio di rivelazione, conteneva semplicemente una grande croce. Tracciare quella croce, come farsi un segno di croce, non fu eseguito con la devozione di un segno sacro, anche se la dipinsi come un segno rivelato, perciò come un dogma grafico.
In quell’occasione il significato della croce era puramente la sua forma asettica, tale da stabilire l’autonomia della croce rispetto al crocefisso, cioè la bellezza della forma della croce, che fa astrazione dal crocefisso. In questo senso quella croce aveva lo statuto della natura morta, eppure nell’incrocio pittorico di una verticale e una orizzontale la più bassa configurazione coincise con la più alta designazione. Ma la natura della croce non poteva essere maggiormente determinata se non si arrivava all’introduzione della figura del crocifisso e alla responsabilità di eseguire pittura religiosa. Avevo esaurito il paradigma della crocifissione nella geometria della croce, svuotando la croce, secondo il rimprovero dell’apostolo Paolo.
ALESSANDRO PESSOLI
Nel 2009 ho realizzato un dipinto di grandi dimensioni intitolato Cristo che brucia fra i limoni. È stato il mio modo di reagire alla crisi economica del 2008. Non è il solo quadro che risponde all’iconografia cristiana. Oltre a crocifissioni ho dipinto anche maternità e annunciazioni. Cristi crocifissi, madonne e santi sono presenze costanti nell’immaginario visivo di un artista italiano, una sorta di Dna visivo ricevuto in eredità.
Sentivo calore e commozione attorno a quei temi. L’immagine di Cristo che si sacrifica sulla croce, il dramma di questa figura sacrificale, il suo estremo atto di amore e compassione per gli uomini, la sua rinascita dopo la crocifissione, in questo messaggio di rinascita, di resurrezione, riconosco la vitalità della pittura che sempre rifiorisce dalle sue memorie storiche. Nello stesso tempo avverto che c’è una sorta di veto nell’arte contemporanea nei confronti dell’arte con soggetti che affrontano narrazione religiose, spirituali, nel mio caso legate al cristianesimo.
L’arte contemporanea è una continua messa a punto di linguaggio e significato, fatica a contenere la stabilità molto forte dell’iconografia cristiana. Al contrario la Chiesa e i suoi fedeli faticano nel riconoscere la figura del Cristo attraverso il linguaggio contemporaneo che spesso deforma e ricombina le iconografie mescolando le carte.
Ma una figura in croce formalmente è fantastica, sopporta tutto, diventa il testimone delle nostre debolezze e della ricerca di felicità. Seppure attraverso fratture, mancanze e ricombinazioni della radice storica, io attraverso questo tempo ho voluto dipingere qualcosa di commovente senza rinunciare alla mia contemporanea idea di realtà. Questo è quello che ho cercato di fare.
NICOLA SAMORÌ
La fede, come la cultura o l’intelligenza, non si attacca ai pennelli; per questa ragione osserviamo immagini realizzate da atei che muovono alla preghiera e opere fatte per mano di devoti ma del tutto sterili.
Sono un autore che ha gli occhi pieni di immagini cristiane e che quando entra in una chiesa italiana si sente nel posto giusto. Un pittore che si è misurato innumerevoli volte con il corpo dei martiri e di Cristo – un corpo/codice eccellente sul quale si sono misurate quasi tutte le grandi trasformazioni dell’arte occidentale – ma sono anche l’artefice di una pittura che non perde di senso anche al di fuori di questa cintura di protezione. L’ho capito in occasione di un progetto personale a Taiwan dove, mentre commentavo una Resurrezione di Cristo e un Giudizio universale da me dipinti, mi è stato detto che tali concetti non erano traducibili e allora mi sono domandato cosa restasse della mia opera privata di questa sorta di boa culturale. Restava, appunto, il corpo; restava la ferita, restava il tessuto della pittura, la sua intima grammatica. Tuttavia quando l’occhio occidentale si imbatte in un torso maschile con un geode che si apre nel costato, il soggetto si carica di senso. È per questo che l’iconografia cristiana è ancora vitale: è un polarizzatore di trasformazioni del linguaggio che quasi sempre hanno bisogno di un oggetto solido e rassicurante per sprigionare vitalità; e lo stesso vale per la mitologia.
Non hanno perso forza i temi più solidi e densi del repertorio cristiano (crocifissione, deposizione, volto di Cristo, immagine della Madonna), basti pensare a come toccare soggetti religiosi in chiave provocatoria continui a costituire una macchina del rumore senza pari. Gli artisti non disertano i temi: gli artisti disertano i luoghi. La figura della Vergine Maria non ha perso carisma; sono le nuove chiese che – tranne rare eccezioni – non ne hanno per nulla.
Penso che il dialogo interrotto con la Chiesa non sia legato al dogmatismo ma, piuttosto, alla debolezza. Paradossalmente i luoghi di fede hanno perso fede in sé stessi, nella loro autorevolezza, e questo ha allontanato gli artisti che ora preferiscono esporre in musei, in fondazioni private, in gallerie o in fiere d’arte, spazi che in nome della cultura o della finanza si prendono molto sul serio e dove la competizione è feroce. All’interno delle chiese la posta in gioco, invece, è oggi bassissima e la sola cosa che solletica l’ego di un artista è il confronto – certo avvincente – con chi le ha decorate prima del XX secolo.
Se le chiese non troveranno il modo di essere ancora una volta desiderabili non potranno più essere una fabbrica del presente, ma solo quel che sono diventate: un posteggio a tempo indeterminato per donazioni da parte di comunità di credenti, repliche edulcorate del peggior repertorio dei santini messo a punto fra Otto e Novecento, arredi improbabili che solo il matrimonio fra l’incompetenza e una idea involuta del sacro possono generare. Non dimenticherò mai due grandi crocefissi bronzei (una donazione) che per anni hanno ostacolato la lettura degli affreschi di Cimabue nella Basilica superiore di Assisi. E in quella inferiore è accaduto di peggio. È come se il concetto di accoglienza avesse travalicato i confini della missione pastorale per farsi apertura ad espressioni deboli mosse, nel migliore dei casi, dai buoni sentimenti; ma è nell’intransigenza estetica (non morale) della Chiesa dei secoli scorsi che ha preso corpo buona parte di quella che chiamiamo storia dell’arte occidentale.
NICOLA VERLATO
Esistono numerosi pittori cattolici che eseguono opere dedicate direttamente alla Chiesa e al suo culto, per cui non è corretto dire che oggi non esista un’arte cristiana o che il rapporto fra religione cristiana e arte sia complesso. Per questi pittori il rapporto è assolutamente semplice, se non scontato. Il fatto che la loro opera da molti non venga nemmeno considerata arte dovrebbe però porci delle domande su quale carattere la parola arte abbia assunto nel corso della modernità e della nostra contemporaneità.
L’arte contemporanea è stata definita in massima parte negli Stati Uniti e da appartenenti (artisti, critici collezionisti, ecc.) a culture religiose monoteiste come il protestantesimo e l’ebraismo. Queste culture religiose hanno avuto per secoli con l’arte un rapporto molto complesso, al punto di escluderla dal culto oppure di regolarla in modo da evitare a priori la trattazione di tematiche che in campo cattolico sono la sostanza stessa di quella che viene considerata l’arte sacra.
Nello sviluppo dell’arte moderna è stato altrettanto importante l’apporto della cultura figurativa russo-bizantina dove le immagini sono ridotte a “scrittura” di immagini. Vista da questo punto di osservazione l’arte moderna e contemporanea è un’arte profondamente religiosa proprio perché obbedisce a dettami estetici che provengono esattamente dalle necessità religiose delle confessioni monoteiste-aniconiche.
Molta dell’arte moderna e contemporanea risponde alla necessità di essere priva di immagini e, se queste compaiono, che non siano né dipinte né scolpite, ovvero fatte dalla mano umana, secondo i dettami del secondo comandamento. È molto comune anche il fatto che esse siano “trascritte” da altre immagini al modo della pittura di icone, che siano cioè immagini di immagini. Andy Wharol, per esempio, credente cattolico di rito ortodosso, non fece altro che portare l’esperienza delle icone bizantine all’interno della cultura di massa creando immagini non eseguite manualmente, proprio nel senso che esse sono serigrafie, ovvero trasferimenti meccanici di immagini fotografiche.
Il problema del rapporto fra arte contemporanea e religione oggi si pone quindi esclusivamente per i cattolici. Fra i pittori cattolici esistono, come dicevamo, quelli che, lavorando direttamente per la Chiesa, fanno un lavoro coerente, producono immagini adatte al culto e nel culto trovano la loro collocazione più esatta, e poi altri pittori che realizzano opere figurative di ispirazione cristiana ma che operano nel mercato dell’arte.
È palese che il sistema dell’arte esclude a priori ogni possibile funzionalità cultuale delle immagini dipinte proprio perché le assegna esclusivamente a un mercato dove esse sono potenzialmente continuamente scambiabili e in continuo movimento. In realtà, secondo il mio punto di vista, proprio questo adattarsi a un sistema di mercato consanguineo delle estetiche dell’arte contemporanea pone questi pittori di ispirazione cattolica in una strana posizione che li rende molto poco cattolici, ma piuttosto simili ai pittori calvinisti del Seicento che rifornivano l’allora nascente mercato dell’arte di immagini di ispirazione religiosa e che si guardavano bene però dal realizzarle in modo tale che potessero divenire oggetto di culto religioso.
L’arte cattolica rimane separata quindi dai destini dell’arte contemporanea, la quale, con molta probabilità, si è formata anche in aperto contrasto con l’egemonia che il cattolicesimo ha esercitato per molti secoli sull’arte. Per quel che mi riguarda è la religione delle immagini di stampo politeista che mi interessa, e l’incredibile capacità che essa ha avuto di tornare alla luce inserendosi, nel corso dei secoli, nell’àmbito del cristianesimo fino a trasformare le figure dei vangeli e dell’antico testamento in dèi ed eroi del mondo greco-romano. Personalmente realizzerei immagini legate al cristianesimo solamente su commissione e solamente se indirizzate a edifici specificamente religiosi.
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