Nella tradizione cristiana le quattro domeniche precedenti il Natale sono quelle che scandiscono il tempo detto di Avvento. La parola latina significa “venuta” e allude alla prima venuta di Cristo (esatto corrispondente greco del termine ebraico mashiah, l’“unto” di Dio, il Messia): la sua nascita nella provincia romana della Giudea, a Betlemme, la piccola città a poca distanza da Gerusalemme.

I testi liturgici che ricorrono in Avvento non riguardano però solo gli avvenimenti di un passato lontano. Oltre l’attualizzazione di un fatto centrale nella fede cristiana come l’incarnazione di Dio, forte è la componente aperta al futuro, quando alla fine dei tempi vi sarà la seconda definitiva venuta (in greco parusía) di Cristo. Insomma, un tempo che esprime la tensione permanente – e caratteristica del cristianesimo sin dagli inizi – tra il “già” e il “non ancora”: tra quanto è già avvenuto ma non ancora compiuto.

Periodo di attesa e di preparazione, l’Avvento segna anche l’inizio dell’anno liturgico. Nella chiesa cattolica la riforma della liturgia voluta dal concilio ha deciso – per i fedeli latini – di rinnovare le letture bibliche della messa, aumentate da due a tre. Più spazio è riservato ai libri ebraici della Bibbia, mentre i vangeli di Matteo, Marco, Luca si alternano ogni tre anni; al vangelo di Giovanni, più accentuatamente teologico, è riservato spazio nel tempo di Pasqua. In confronto a Giovanni, «questo purosangue che mi riceve scalciando, Marco, Matteo e Luca mi sembrano gagliarde bestie da tiro più adatte a un principiante» scrive Emmanuel Carrère con un paragone folgorante.

La rotazione

L’anno che oggi si apre è quello di Luca. L’evangelista descrive con particolari unici l’esordio della predicazione di Gesù a Nazaret, il villaggio della Galilea dov’è cresciuto e vive la sua famiglia. Con efficacia la scena, narrata nel quarto capitolo del vangelo lucano, catapulta il lettore in un giorno di sabato, quando Gesù «secondo il suo solito» entra nella sinagoga e gli viene dato il rotolo del libro di Isaia. Legge un brano, quello dove l’antico profeta – in realtà, uno dei suoi continuatori – presenta il Messia atteso dalla speranza d’Israele.

Familiari all’uditorio sono le parole che identificano colui che è atteso: «Lo Spirito del Signore è su di me; perciò mi ha unto per portare la buona notizia ai poveri» e per «annunciare l’anno di accoglienza del Signore». Quest’ultima espressione è di norma tradotta «anno di grazia» e designa l’anno «santo» fissato dalla legislazione ebraica (Levitico, 25, 10-13) ogni cinquant’anni: un periodo di riposo agricolo e di libertà che molti secoli dopo è stato trasformato nel giubileo cristiano indetto per la prima volta nell’anno 1300 da papa Bonifacio VIII e che ora, fra non poche tribolazioni dei romani, sta per aprirsi.

Gesù, riavvolto e riconsegnato il rotolo sacro, si siede. «Nella sinagoga gli occhi di tutti sono fissi su di lui». Luca rende in modo perfetto la scena. In effetti le parole di Cristo sono sconvolgenti: «Oggi si è compiuta questa scrittura nei vostri orecchi». Gesù si identifica dunque nel Messia annunciato profeticamente dalle Scritture e il rifiuto dei concittadini è immediato: «Non è il figlio di Giuseppe questo qui?». È questo il primo scontro che in qualche modo preannuncia la conclusione tragica della predicazione di Cristo.

La citazione profetica non corrisponde esattamente al testo di Isaia perché «se ne discosta in quattro punti», come nota Antonio Landi nel suo recente commento (Luca, Queriniana), osservando come Gesù segua un principio dell’esegesi rabbinica che spiegava un brano biblico con un altro simile, proprio come nella filologia ellenistica si chiariva «Omero con Omero». Il biblista spagnolo Julio Trebolle Barrera va ancora più in là: la citazione, «che non ha paralleli in nessun testo conosciuto, potrebbe essere una creazione dello stesso Gesù».

Uno sceneggiatore

Chi è dunque Luca, questo evangelista che ricostruisce e sceneggia in modo così efficace, ma nello stesso tempo così attendibile, l’esordio fallimentare della predicazione di Cristo? Paolo lo definisce suo «collaboratore», chiamato «il caro medico», forse originario di Antiochia, la grande metropoli della Siria. Qui, secondo gli Atti degli apostoli – che lo stesso Luca, «lo storico di Dio» raccontato dal biblista protestante Daniel Marguerat (Claudiana), scrive come seconda parte del vangelo – per la prima volta i seguaci della «via» (9, 2) vengono chiamati «cristiani» (11, 26).

Secondo altri Luca potrebbe essere macedone, dunque l’unico autore biblico europeo. Lo credeva Ernest Renan, che ha definito il vangelo lucano «il più bel libro che esista», e lo crede Carrère (Il Regno, Adelphi). Secondo Carrère, con Paolo è proprio Luca uno dei protagonisti dei primi decenni cristiani: ho capito – scrive – che «avrei seguito Luca», e che «poche righe degli Atti degli Apostoli [16, 9-10] erano la porta che cercavo per entrare nel Nuovo Testamento. Non la porta principale, non quella che dà sulla navata centrale, di fronte all’altare, ma una porticina laterale, un po’ nascosta: proprio quello che mi serviva».

L’immaginazione di Carrère è fervida nel ricostruire l’incontro di Luca – che presenta come un autentico scrittore – con Paolo. In una taverna di Troade, oggi in Turchia, i due discutono fino a notte fonda, oppure il medico è al capezzale dell’apostolo, malato.

Un’altra tradizione molto antica afferma che l’evangelista era pittore. A san Luca infatti sono attribuite veneratissime icone di Maria e in un olio ora al Prado l’evangelista venne dipinto con una tavolozza ai piedi della croce, verso il 1650, da Francisco de Zurbarán, che forse in questo modo si rappresentò, in un singolare autoritratto.

Medico o pittore? «Una cosa comunque non esclude l’altra, e bene hanno fatto i pittori a considerarlo sempre il loro patrono» scriveva Franco Lucentini introducendo in un tascabile Einaudi la traduzione di Fulvio Nardoni e sostenendo che il vangelo secondo Luca «è già esso stesso un seguito di stupende figurazioni pittoriche».

Della fortuna iconografica del vangelo tratta anche il biblista protestante François Bovon, allievo di Oscar Cullmann, nel suo monumentale e accuratissimo commento in tre volumi (Il vangelo di Luca, Paideia), dove – a proposito della Cena in Emmaus dipinta nel 1629 da Rembrandt – definisce la presenza di Cristo risorto, che siede a tavola con i due discepoli, una «presenza assenza», una «presenza spirituale che sfugge».

Le sue origini

Come sfuggenti e intriganti sono le ipotesi sull’origine dell’evangelista, spesso ritenuto di origine pagana e simpatizzante nei confronti del giudaismo. Tre autori, in genere ignorati dai commentatori, affermano però che Luca non era solo vicino al giudaismo, ma lui stesso ebreo, come tutti gli altri autori degli scritti sacri cristiani.

Geniale ed estremo, il grecista Jacques Cazeaux (Luc, le taureau d’Ézéchiel, Les Éditions du Cerf) propone una lettura controcorrente dell’opera di Luca perché profondamente radicata nell’ebraismo. Cazeaux rovescia l’interpretazione del toro – tradizionale simbolo di Luca perché il suo vangelo si apre con la suggestiva scena del sacrificio di Zaccaria – e lo accosta piuttosto a quello della misteriosa visione del profeta Ezechiele.

Nuova è l’interpretazione di due altri biblisti, il catalano Josep Rius-Camps e la gallese Jenny Read-Heimerdinger, che hanno edito e tradotto tutta l’opera di Luca – il vangelo e gli Atti degli apostoli – secondo il codice di Beza, un manoscritto bilingue (greco e latino) della fine del IV secolo (Demostración a Teófilo, Fragmenta Editorial). Il manoscritto, salvato nel 1581 dalle distruzioni degli ugonotti dal calvinista Teodoro Beza, «conserva un testo più coerente e vicino all’originale lucano». Si tratta infatti della redazione occidentale, che è un po’ più lunga del testo alessandrino e anche più vicina all’ebraismo.

Luca, secondo l’ipotesi dei due studiosi, era infatti di Antiochia di Pisidia, nell’attuale Turchia. Ebreo, avrebbe incontrato i credenti in Gesù a Gerusalemme, e qui «avrebbe ricevuto una approfondita istruzione su Gesù e sul suo messaggio». Divenuto rabbino, sempre a Gerusalemme l’evangelista avrebbe incontrato Teofilo, il destinatario della sua opera suddivisa in due parti, e proprio all’amico Luca si rivolge nei prologhi sia del vangelo sia degli Atti degli apostoli. E nel codice di Beza l’opera di Luca è presentata insieme, a differenza di tutti gli altri manoscritti antichi dove sono separate.

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