- Della vicenda di Tiémoué Bakayoko, giocatore del Milan, fermato e perquisito dalla polizia in pieno centro a Milano come fosse un terrorista appena evaso, o un rapitore di bambini ricercato da decenni, è saltato all’occhio il dato più evidente.
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Il colore della pelle. Quindi. Giustamente. La questione razziale.
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Possiamo dirlo senza grandi esitazioni: la perquisizione ai danni di Bakayoko, assurda per quanto incomprensibile, violenta, è motivata da pregiudizio razziale.
Della vicenda di Tiémoué Bakayoko, giocatore del Milan, fermato e perquisito dalla polizia in pieno centro a Milano come fosse un terrorista appena evaso, o un rapitore di bambini ricercato da decenni, è saltato all’occhio il dato più evidente.
Il colore della pelle. Quindi. Giustamente. La questione razziale.
Possiamo dirlo senza grandi esitazioni: la perquisizione ai danni di Bakayoko, assurda per quanto incomprensibile, violenta, è motivata da pregiudizio razziale.
Anche nel caso di una segnalazione errata, anche se a rischio fosse stato l’ordine pubblico, e ciò non sembra, appare del tutto spropositata la veemenza degli agenti rispetto alle azioni del fermato. Perché?
Un ragazzo di colore, nell’anno del signore 2022, non può girare per una grande città occidentale su una vettura di lusso?
Sin qui tutti d’accordo.
E ci mancherebbe altro.
Sarebbe bello, si potrebbe aggiungere, vedere stessa reazione sdegnata da parte della pubblica piazza quando a essere fermato con lo stesso sprezzo di pistole non è il ragazzo africano su Suv arcimilionario, ma lo studente che esce dalla stazione diretto all’università. Anonimo. Innocente. Non un calciatore amato e famoso. Uno qualsiasi, che gli metti le mani addosso e deve comunque ringraziare il cielo…
Ma c’è un’altra questione, interrazziale, intersociale, che sfugge spesso e che aggrava le immagini della perquisizione medioevale ai danni di Bakayoko.
Sono un uomo bianco, di anni 48, incensurato.
E soffro d’ansia. Da sempre.
Ho sofferto di panico. So che vuol dire.
Gioco a mettermi nei panni della vittima. Di Bakayoko.
Milano. 45 gradi percepiti all’ombra. Io sulla mia utilitaria, questo mi concede la mia vita, che percorro la mia strada, diretto al mio obiettivo, che vivaiddio non vuole il male né i possedimenti di qualcun altro, almeno niente che non sia regolarmente scontrinabile…
Ed ecco loro, la polizia, entrare in scena.
Mi fa scendere dalla macchina, mi mette le mani addosso, mi punta armi da fuoco. Intanto il caldo fa impazzire, il respiro è talmente accelerato da diventare in poco affanno, poi mancanza d’aria. Non respiro.
Non respiro. Mi sento morire. Mi sento impazzire.
Fatemi andare via. Vi prego.
Non ho fatto niente, sono solo un uomo che andava per la sua strada.
Vi prego, fatemi correre via.
Soffro d’ansia. Vi prego.
Invece, loro, alla mia richiesta, le mie lacrime, reagiscono con foga ancora maggiore. Le mani che stringono ancora più forte.
Io qui morirò. Senza aver fatto nulla.
Senza neanche saperlo, perché sono stato ammazzato.
Forse, non lo sanno nemmeno loro.
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