Oggi pomeriggio ai quarti di finale del mondiale di basket incontriamo gli Stati Uniti. Alla partita ci arriviamo da underdog, siamo i Giorgia Meloni della palla a spicchi, ma crederci non costa nulla
Da qualche giorno nelle sale italiane danno un film sulla contessa Jeanne du Barry, la favorita del re Luigi XV, famosa per aver pronunciato, mentre andava alla ghigliottina la frase: «Ancora un minuto, signor boia». Aveva amato troppo la vita, ne reclamava un ulteriore istante. Analogamente e parlando di vita sportiva, si parva licet, l’Italia del basket si è molto affezionata al suo campionato del mondo nelle Filippine e il minuto in più lo chiede oggi, 5 settembre, ore 14:40, al suo sogno mancato, il talento Nba Paolo Banchero che, dopo aver molto tergiversato ha scelto l’altra cittadinanza che possiede, a stelle e strisce. Italia–Usa è un quarto di finale in cui l’alternativa è la testa mozzata o le porte del paradiso della semifinale che si spalancano. Ci arriviamo da underdog, siamo i Giorgia Meloni della palla a spicchi ma crederci non costa nulla, soprattutto dopo aver scansato diverse volte il patibolo ed esserci meritati la grazia a suon di canestri.
Eravamo perduti dopo lo sciagurato rovescio nel girone con la Repubblica Dominicana, l’allenatore Gianmarco Pozzecco espulso e furente per un torto arbitrale come fosse un Achille a cui avevano ucciso in guerra Patroclo. Tanto da meditare propositi di «buttarsi dal trentasettesimo piano», e lo avrebbe fatto «senza l’aiuto del mio staff»: non c’era nemmeno bisogno di un assassino, suicidio per disperazione. Ci era allora toccata in sorte la magnifica Serbia, bestia nera dai tempi in cui si chiamava Jugoslavia, recentemente assai più tenera dopo averla sconfitta a un preolimpico e a un europeo. A favore avevamo solo la cabala trita del “non c’è due senza tre”. E sembrava non funzionasse a metà del terzo quarto quando eravamo finiti sotto di sedici e sotto un dominio dei plavi che sembrava incontrollato.
L’orlo del baratro
È qui, sull’orlo del baratro, che siamo stati rianimati da un vero Achille di nome Gigi Datome, il capitano della squadra, il quale ha indossato l’armatura del supereroe e con dieci punti di fila, senza chiederlo a nessun boia, si è preso il suo minuto in più, lui che smetterà, lo ha già annunciato, alla fine della competizione, ma ha preteso fosse ancora prematuro il suo tempo. Non sarebbe stato sufficiente se al suo fianco non si fosse schierato uno scudiero, Simone Fontecchio, che aveva qualcosa da farsi perdonare, i tiri liberi decisivi sbagliati contro la Francia l’anno scorso nel quarto di finale dell’Europeo. Ne ha infilati trenta in tutto, scongiurando il suono della campana che stava suonando per lui, per Datome, per l’intero team.
Dopo il peccato originale dominicano non erano finite le fatiche di Sisifo, c’era da completare l’opera con Portorico per staccare il biglietto che ci colloca tra le migliori otto del globo. Portorico che sembra così ma ne imbuca spesso cento a partita, ha fatto match quasi pari con gli Stati Uniti in preparazione, si è sbarazzato dei domenicani e a un certo punto aveva messo la testa avanti, prima che il solito Datome suonasse le trombe della riscossa per ritardare una pensione prematura, comunque vada, visto quanto riesce ancora a produrre sopra i listelli di un parquet. Sembrava scontato, a quel punto che, diventati primi nel girone, ci toccasse la seconda dell’altro gruppo, verosimilmente la Lituania. Ma siccome gli dei del basket con noi sono capricciosi la Lituania ha battuto gli Stati Uniti, tra sospetti indimostrati di combine: esperti di dietrologia giurano che oltreatlantico hanno preferito perdere per essere accoppiati a noi invece che alla Serbia.
Eccoci a sfidare il colosso per un incontro scontato stando agli allibratori che quotano poco sopra l’uno la vittoria americana e sopra l’otto la nostra. Ma chi ha subito un danno, ha scritto Josephine Hart, è pericoloso perché sa di poter sopravvivere. La contessa du Barry non ebbe una seconda chance, scaduto il suo minuto, erano tempi giacobini. L’Italia del basket è come i gatti che cadono da qualche piano alto (non dal trentasettesimo, sarebbe troppa grazia) e poi sgattaiolano via. Ha dalla propria parte la sufficienza con la quale gli avversari snobbano i Mondiali (lo facevano anche con le Olimpiadi prima della vergogna di Seul 1988 che li costrinse a varare il Dream Team per Barcellona 1992), mandano atleti non di prima fascia con la sicumera che tanto prevarranno comunque: del resto per loro campione del mondo è chi vince l’Nba. Soprattutto gli azzurri hanno la leggerezza di chi non ha nulla da perdere e magari un conto da regolare con quel Paolo Banchero che li ha rifiutati come compagni, stella in ascesa non ancora luminosa polare.
Ostinati alla meta
Certo, tutto ci è contro, salvo la nostra naturale ostinazione. Non vinciamo un europeo dal 1999, alle Olimpiadi campiamo nel ricordo dell’argento di Atene 2004, ai Mondiali l’ultima semifinale, comunque persa, risale al 1978, e si era nelle Filippine, come adesso, che sia buon segno? Troppo spesso, negli ultimi vent’anni, nell’illusione di avere una generazione d’oro, come i pifferi di montagna siamo andati per suonare e siamo tornati suonati. Stavolta, niente dichiarazioni reboanti, consapevoli di una inferiorità rispetto ad altre nazioni che nel basket ci hanno superato di gran lunga, fossero anche piccole nazioni come la Slovenia. Non abbiamo una batteria di pivot che possono intimorire per tecnica e statura. Ma, se non abbiamo proprio l’istinto dei killer, abbiamo l’istinto di sopravvivenza, in questo specchio sincero di un Paese che è solito dare il meglio di sé quando si trova sul precipizio.
Signor boia americano, un minuto in più lo chiede l’irriducibile Alessandro Pajola, uno che si accolla al diretto avversario e gli cava il respiro fin dentro gli spogliatoi; il piccolo Marco Spissu che non trema nemmeno se deve tirare da tre e davanti ha una muraglia; il marine Stefano Tonut delegato alle missioni impossibili; il solido Giampaolo Ricci che c’è sempre quando serve; l’Achille Polonara che qualcosa vorrà dimostrare dopo un torneo sottotono; la recluta Luca Severini che viene dalla provincia, certi palcoscenici non è abituato a calcarli eppure sta giocando da veterano nei momenti decisivi; il professor Nicolò Melli che insegna basket in ogni parte del campo; la star Simone Fontecchio in attesa di consacrazione; il capitano Gigi Datome, colui che indica la strada. E poi i baby Matteo Spagnolo, Gabriele Procida, Mouhamet Rassoul Diouf. Una sporca dozzina golosa dell’impresa.
È probabile non basti ma questa nazionale un risultato l’ha già ottenuto: dopo troppe delusioni, farci reinnamorare dello sport dei canestri. E quel continuo chiedere un minuto in più, se è deleterio per le coronarie, ha aggiunto sinora il piacere impagabile del pericolo scampato.
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