Italo Calvino diceva, in una ormai classica e inflazionata definizione, «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Beh, adesso ha finito. O, se vogliamo essere cauti, per adesso ha finito. Su cosa si intenda per classico si potrebbe discutere in centinaia di pagine; usiamo il buon senso e diamo per condiviso che stiamo parlando di quei testi letterari che in occidente sono stati considerati dei punti di riferimento per molti secoli, in una serie varia e non priva di scossoni che va da Omero al Novecento, tipo Proust e Kafka per intenderci o anche dopo, Kundera e Garcia Márquez.

Residui

Nella nuova libreria Mondadori di piazza Duomo a Milano ho provato a fare un calcolo approssimativo: la letteratura che è stata considerata un faro per più di due millenni e mezzo occupa circa il dieci per cento dello spazio sugli scaffali. Con presenze ovvie e altre più strane (Pico della Mirandola?) e con assenze inspiegabili (niente Ariosto tra Alcott e Austen, a Petrarca non è bastato essere lo scrittore italiano che ha avuto più influenza in Europa per assicurare un posto al suo Canzoniere). Qualche classico spunta dove non te l’aspetti: La metamorfosi di Kafka e il Macbeth shakespeariano stanno in un espositore che reca l’intestazione Ispirazioni. Storie sospese tra sogno e follia. La Austen riciccia un’altra volta nella fila dei booktok, cioè dei libri consigliati dai tiktoker; qualcuno è proditoriamente incluso nelle “novità” in quanto ristampa. Se ci fosse un settore “Libri scolastici” forse ci troverei sia Ariosto che Petrarca («gli scolastici non li teniamo» mi rispose alla Feltrinelli di piazza Gae Aulenti una commessa a cui avevo chiesto una copia dell’Orlando furioso). Tornando al settore a loro dedicato, nelle loro edizioni pesanti e di lusso, i classici mi sono apparsi come moncherini. Residui.

Sperduti

Uscendo sulla piazza, tra selfie coi piccioni e ragazzi in skate, ciclisti di Glovo e famiglie africane, modelle giapponesi e badanti filippini, ho avuto la sensazione di un doppio smarrimento: i lettori si disinteressano ai classici perché i classici non riescono più a interpretare i lettori. Eviterei di ripetere qui la geremiade sulla perdita della profondità, sulla dissipazione dell’esperienza e lo schiacciamento al presente; sull’onnipotenza della tecnologia, sul mutare dei tempi d’attenzione, sul secolo del visuale e del virtuale; sulla prevalenza dell’economico, sulle politiche editoriali e ministeriali, sulla perdita dell’aura di cui già ci si lamentava nell’Ottocento parigino. Vorrei mettermi nei panni dei classici, capire meglio il loro sentirsi sperduti e fuori luogo; e analizzare, se si può, il loro senso di colpa. Per esser venuti meno alla loro missione, in cui hanno creduto a lungo più o meno ciecamente: anche i più depressi e disperati, i più concentrati sul loro, di presente, i più venduti all’Impero di turno, tutti si sono pensati eterni, più perenni del bronzo, tutti si sono illusi di toccare sentimenti universali.

Da un po’ di tempo, se provano a pensarci, hanno sentito che il loro monumento si stava sgretolando: che a scuola rompevano il cazzo agli studenti, che venivano percepiti come troppo complessi e pretenziosi, insomma che erano accusati di tirarsela. Che non erano più maestri di forma e nemmeno di vita. Poi è arrivata l’onda devastante della contestazione politica: si sono sentiti schierati davanti al plotone d’esecuzione, contro il muro del maledetto canone. Il canone è quel catalogo normativo che ogni civiltà erige per la propria pedagogia, l’elenco delle opere che contano per la trasmissione di una visione del mondo. Ebbene, sempre più chiara appariva l’ingiustizia di un canone composto quasi esclusivamente da “maschi bianchi morti”.

Tentativi di sopravvivenza

Di fronte agli studi post-coloniali e di genere, come mantenere intatta la propria autorità? Bisognava rivalutare e rileggere un folto gruppo di scrittrici (non solo poche inglesi e qualche antica giapponese), c’era tutto il resto del mondo che premeva per raccontare e imporre le proprie storie – la letteratura si apriva a una rivoluzione copernicana, i criteri di efficacia e bellezza dovevano essere rivisti; il privilegio magistrale si smontava rivelando di non essere altro che autoritarismo sotto una smorfia democratica. I critici benintenzionati, i difensori dei classici (se non erano ottusi codini), hanno sentito la necessità di rendere i classici più webbabili: di contaminarli, frammentarli, riscriverli, tradirli. Trasformarli in fumetti e serie televisive, metterci sotto una musica accattivante, estrarne pillole di saggezza da Baci Perugina, ridurli a immarcescibili beni-rifugio (il Garcia Lorca in cameretta, I Meridiani Mondadori e gli Adelphi in salone) da mostrare o nel migliore dei casi da stimare senza averli capiti.

Più audace e subdola è stata l’altra pratica di riscriverne la trama “dalla parte delle donne”: l’Iliade vista da Criseide o da Elena, l’Odissea secondo Penelope, Elettra che fa finalmente valere le proprie ragioni. È in questo cantuccio alternativo che in piazza Duomo ho rintracciato la Medea e la Cassandra di Christa Wolf, in sprezzo di quello che a me ancora sembra la gerarchia del valore letterario: geniali riscritture finite accanto a pallidi epigonismi. Se devo essere sincero, recuperare a tutti i costi la perenne vitalità del classico mi pare un errore; se un rapporto si rompe, si rompe. Non si serve una bistecca di tofu dicendo che è la lasagna della nonna, si rischia che la gente ci caschi e non sia più in grado di distinguere i sapori.

Nuova antropologia

Ripenso alle giornate di lettura che mi regalavo da ragazzo sotto un olmo, durante le vacanze estive: i classici grigi della Bur che costavano pochissimo, quasi senza note. Aspettative deluse, sorprese piacevoli, identificazioni in maschi e femmine, lunghe pause per rimuginarci su e riprendere il filo della frase interrotta. Ma soprattutto, mi pare di ricordare, la gioia di trovare quel che non cercavo: nei Viaggi di Gulliver, invece delle avventure fiabesche, lo schifo per la famiglia borghese; nel Père Goriot, invece della tragedia dell’amor paterno come nel Re Lear, la rivelazione di quanto l’omosessualità possa essere ardita. Ecco, ho l’impressione che giornate come quelle, che erano rimaste pressoché uguali dalla Illiers del 1885 alla Modena del 1960, ora non siano più possibili se non in casi rari di disagio psicologico e mentale.

È cambiata l’antropologia della lettura. I classici, per tornare al loro punto di vista, si sentono sfogliati da mani frettolose, si vergognano delle loro pagine tutte fatte di righe in fila, senza uno straccio di illustrazione: allora si fanno leggere da attori famosi ma è peggio che andar di notte perché le distrazioni aumentano se invece che con un lettore hai a che fare con un ascoltatore. Meglio di niente, si dicono, ma non sono davvero convinti. Il fatto è, credo, che per l’operazione conoscitiva di cui parlavo prima, cioè scoprire quel che non si sapeva di star cercando, c’è bisogno di calma, di noia, di scavare nello spessore fino a trovare quel che c’è da dissodare dentro di sé; bisogna capire che il tempo è un’approssimazione che raccoglie sotto un unico termine tempi diversissimi, e che quello della lettura è un tempo fluttuante.

Evitare l’accanimento terapeutico

Non è tanto che si sia persa l’aura (o l’aureola, che già cadeva dalla testa dei poeti in un racconto di Baudelaire), è proprio sparito il tessuto connettivo. Una brutta botta gliel’ha data la scuola, sommergendo i classici sotto una nebbia di spiegazioni bislacche e teoremi formalisti (più facili per gli insegnanti che così hanno le interrogazioni già pronte), dando l’impressione che il testo sia solo una barre d’appui per esercizi altamente specializzati (non dimentichiamo che la parola “classico”, nel suo etimo latino, allude al privilegio di censo). I classici vorrebbero mostrarsi nudi, con tutte le loro contraddizioni e le loro immaturità di quando classici non erano, ma lì si scontrano con l’onda opposta delle stories sui social, che sulla nudità dei cazzi propri stanno costruendo una fortuna. E non è solo questo, anzi a lamentarsi di questo è il mio io viziato dalla letteratura; la verità è che ci sono così tante persone che ora prendono la parola e che hanno diritto di prenderla, cristo. Sono cambiate le condizioni anche numeriche oltre che etiche, i classici devono rassegnarsi. Il classico era costituito per il sessanta per cento dal proprio testo, ma almeno per il quaranta dal riconoscimento di un “campo letterario” che ne raccoglieva gli echi e ne rilanciava il senso.

È cambiata la lingua, a scuola molti altri testi è giusto che vengano prima; non solo Dante e Tasso, ma anche le Operette morali e forse perfino Gadda o Montale avrebbero bisogno di una traduzione in italiano corrente. La metafora del moncherino non è poi così male: Franco Fortini diceva che i classici hanno in sé stessi qualcosa di compromissorio, perché ottundono gli antagonismi che erano presenti nel testo alla propria nascita – ne concludeva che i classici favoriscono una «contemplazione della morte di ciò che è più vivente». Forse è questa la cosa di cui la nostra epoca non è più capace; evitiamo l’accanimento terapeutico, aspettiamo che i classici (non solo occidentali, a questo punto) muoiano davvero per riapparire, semmai, come rovine.

Con l’archeologia l’abbiamo fatto: i capitelli romani sono stati riciclati nel Medioevo come acquasantiere, un cacatoio in porfido è diventato un seggio papale col buco, da cui un addetto tastava i testicoli del nuovo pontefice (onde evitare la replica della papessa Giovanna). Meglio le colonne abbattute e gli affreschi slavati che i restauri ingannevoli, no alle ricostruzioni stile Disneyland.

Leggo che un’iniziativa delle librerie Feltrinelli intende selezionare cento “classici di nuova generazione”, i classici del futuro mediante incontri nei loro book club; auguro loro i migliori successi, ma non nascondo il mio scetticismo: i classici non sono (più) un paese per giovani.

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