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Le dichiarazioni del presidente del Senato sono l’ultima offesa alla memoria storica sul nostro passato.
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Ma lo stesso copione si ripete ogni anno: la Festa della liberazione porta con sé le solite falsificazioni.
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Liquidata come “festa fratricida” o “divisiva”, o ancora un “eterno derby fascisti-comunisti”, secondo una tradizione tutta italiana, la Festa della liberazione scatena ogni anno delle polemiche infinite.
“Ma che dobbiamo festeggiare”? scriveva Giorgio Almirante nel 1955 sulle pagine del Secolo d’Italia, per il decennale della Liberazione. Sono passati settantotto anni da quel 25 aprile che liberò l’Italia dall’occupazione nazifascista, restituendo la democrazia al paese che nel 1922 aveva regalato il potere a Benito Mussolini.
Per ovvie ragioni anagrafiche e anche a causa dell’epidemia da Covid-19, molti partigiani non sono più tra noi. I pochi sopravvissuti sono ormai rintanati in una profonda solitudine, costretti a vivere ai margini di una società che continua ad attaccare in maniera violenta (non di rado indecente) i valori in cui avevano creduto.
Liquidata come “festa fratricida” o “divisiva”, o ancora un “eterno derby fascisti-comunisti”, secondo una tradizione tutta italiana, la Festa della liberazione scatena ogni anno delle polemiche infinite, che tornano a prendere di mira quelle che furono le ragioni della guerra partigiana e la “moralità” della Resistenza.
Fake news
Assassini, vigliacchi, terroristi, “colpevoli sfuggiti all’arresto”; questi alcuni degli epiteti che circolano ancora nel dibattito pubblico e che equiparano gli atti di Resistenza ad azioni di terrorismo (peraltro inutili sul piano militare perché tanto ci avrebbero liberato gli alleati).
Insulti accolti con colpevole indifferenza da un’opinione pubblica troppo spesso orientata a giustificare ex fascisti, assolti, graziati e riabilitati per aver semplicemente “obbedito ad ordini superiori” o per essere stati “buoni padri di famiglia”.
È una narrazione che viene da lontano (non ne ha certo tutto il merito la destra di oggi) perché fin dagli anni Cinquanta è la voce del buon senso moderato, ideologicamente orientato e facilmente suggestionabile a dipingere le azioni partigiane come inutili e dannose e a tramutare il colonialismo, le leggi razziali, la violenza fascista e la guerra come incidenti di percorso di un regime sì autoritario ma tutto sommato sfortunato, dittatoriale con moderazione e in fondo mai totalitario.
Un regime che aveva avuto molte colpe, ma in definitiva aveva solo desiderato elevare l’Italia a grande potenza e aveva fatto “anche cose buone”. Una delle più clamorose fake news ancora in circolazione (che ha recentemente conquistato la seconda carica istituzionale dello stato) vuole che a via Rasella, i partigiani dei Gap centrali di Roma avessero lanciato bombe contro innocui riservisti altoatesini; una sorta di “banda musicale” che ogni giorno passeggiava amabilmente per le strade della Roma occupata dai nazisti.
La vera storia
Peccato che i 160 militari reclutati nell’XI compagnia del III battaglione Ss-PolizeiRegiment Bozen, attaccati in via Rasella il 23 marzo 1944, non fossero musicisti e nemmeno dei vecchietti. E che i loro commilitoni del reggimento 101 si fossero già macchiati di infamia massacrando la popolazione civile sul fronte orientale.
Stesso inquadramento, stesso addestramento, stessa funzione. Quel giorno, in via Rasella, sono armati fino ai denti con tanto di motocarrozzetta e servente al pezzo. Hanno appena terminato le esercitazioni al poligono di tiro sulla via Flaminia, e il loro compito è far rispettare l’ordine pubblico in città.
Una città ribelle, “esplosiva” (come la definisce lo stesso Herbert Kappler, il comandante della Gestapo) dove si conta una media di otto attacchi partigiani al giorno e dove è necessario procedere con retate, rastrellamenti e deportazioni per spezzare il legame che esiste (o potrebbe esistere) tra le forze della Resistenza e la popolazione civile.
I camerati del III battaglione hanno un’età media di 35 anni, e hanno optato per la nazionalità germanica per poi essere assimilati al Reich nell’ottobre 1943. La loro affidabilità è già stata testata sul campo. I nazisti hanno bisogno di “bonificare” i territori occupati dalle bande di ribelli: e non riuscendo a stanare i partigiani che operano alla macchia attuano una guerra terroristica di tipo preventivo e intimidatorio, fatta di incendi a paesi e villaggi, di corpi impiccati per strada a monito della popolazione civile, di rastrellamenti, eccidi, stragi e stupri contro le donne.
Nel marzo 1944 il I battaglione viene impiegato in Istria in operazioni di antiguerriglia partigiana presso Fiume, Abbazia e Krk. Nel febbraio 1944 il II battaglione, dislocato a Belluno, conquista chiara fama per la sua brutalità, rendendosi responsabile di stragi contro i civili. Nell’agosto 1944 reparti dei Bozen metteranno a punto un massacro nella valle del Biois, in Cadore.
Il territorio verrà battuto in modo spietato e interi villaggi dati alle fiamme non risparmiando donne e bambini. Si dice che fossero altoatesini e non tedeschi (come se l’aver tradito l’Italia indossando la divisa delle SS non li rendesse doppiamente colpevoli).
L’ordine già stato eseguito
Ma la storiella degli “anziani riservisti”, quasi degli innocui vigili urbani, non è però la sola leggenda nata intorno a via Rasella e alla strage delle Fosse ardeatine. Una delle più clamorose fake news ancora in circolazione vuole che il comando Ss di Roma avesse diffuso un manifesto con il quale si invitavano i gappisti a consegnarsi per scongiurare il massacro di 335 ostaggi.
Peccato che quel manifesto non sia mai esistito. A nemmeno 24 ore dall’attacco gappista, che aveva causato 33 vittime fra i militari altoatesini, nella massima fretta e con la massima segretezza (senza svolgere alcuna indagine, emettere un comunicato radio o affiggere manifesti per chiedere agli attentatori di costituirsi) il comando Ss guidato da Kappler (su ordine del comandante della XVI armata, il generale Eberhard von Mackensen) decideva di fucilare dieci italiani per ogni tedesco ucciso. Una proporzione criminale, del tutto discrezionale, non prevista da alcun codice penale militare di guerra (se non dalle consuetudini già adottate dall’esercito occupante tedesco in altre operazioni di polizia antipartigiana in Europa e molti altri luoghi d’Italia).
Solo il 25 marzo, i romani venivano a sapere, dalle colonne de Il Messaggero, dell'«ordine già stato eseguito».
Povero vecchio
Viene allora da chiedersi perché ancora oggi quando si parla di stragi naziste si tende a fare il “processo alla Resistenza”? Via Rasella è stata definita una “legittima azione di guerra” in tutte le sedi e gradi di giudizio, eppure durante il processo Priebke (lui sì colpevole sfuggito all’arresto, scovato in Argentina solo negli anni Novanta come del resto Kappler, misteriosamente fuggito dall’ospedale militare del Celio nel 1977) gran parte dell’opinione pubblica italiana ha finito per schierarsi col “povero vecchio”, che in fondo, in gioventù, non aveva fatto altro che obbedire a ordini impartiti dall’alto, per evitare la condanna a morte.
Pochi forse sanno che secondo precise disposizioni del codice penale militare di guerra tedesco, i militari della Wehrmacht o delle Ss potevano rifiutarsi di eseguire un ordine criminale ritenuto in contrasto con la propria coscienza o col proprio credo religioso (proprio ciò che aveva fatto il maggiore Dobrik, comandante del battaglione Bozen, rispedendo al mittente l’invito di Kappler a prendere parte alle esecuzioni delle Ardeatine).
Dopo la liberazione, sarebbero stati proprio Herbert Kappler e Albert Kesselring a dichiarare (dinanzi ai tribunali militari che gli accusavano di crimini di guerra) che non c’era stato né il tempo né la volontà di avvertire la popolazione di Roma dell'imminente strage.
I conti col passato
Forse sarebbe ora di fare davvero i conti col passato. Magari, con onestà intellettuale, si potrebbe riflettere sul fatto che la leggenda nera dei manifesti fu messa in circolazione proprio dai fascisti, nel corso di un’assemblea convocata dal segretario della federazione romana de Partito fascista repubblicano, per eliminare una volta per tutte il brusio di voci intorno alla sorte delle persone rastrellate e scomparse dopo l’attacco di via Rasella.
Come si potevano convincere i romani a collaborare con i tedeschi dopo la notizia di una strage così orribile come quella delle Ardeatine? Semplice: macchiando per sempre la credibilità e l’onore degli uccisi e facendo ricadere sui partigiani la colpa della strage, togliendo ai nazisti il peso delle loro responsabilità. Uno splendido esempio di quanto un’abile comunicazione mediatica sia capace di manipolare le masse e conti molto più dei fatti realmente accaduti.
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