- Benché sia stata senz’altro la più importante, Beatrice Portinari non era l’unica donna di Dante Alighieri. Che poi sia esistita davvero, è stato messo in dubbio da alcuni studiosi. Qual è il confine tra biografia e finzione poetica?
- Beatrice non è l’unica. Lo ricorda il compianto Marco Santagata nel corposo volume postumo, Le donne di Dante (il Mulino), che annovera una schiera di presenze femminili da far impallidire un vascello di bucanieri.
- Intricato il bandolo delle apparizioni donnesche anche nella poesia di Montale, la cui tecnica di assemblaggio (o assembramento) è mutuata nientemeno che dal Petrarca.
Benché sia stata senz’altro la più importante, Beatrice Portinari non era l’unica donna di Dante Alighieri. Che poi sia esistita davvero, che il poeta l’abbia conosciuta all’età di nove anni e che anzi tutta la loro vicenda sia sorta e sviluppata sotto il segno del nove (numero teologicamente perfetto), è stato messo in dubbio da alcuni esegeti: come Remy de Gourmont, poligrafo francese i cui «scritti sulla poesia amorosa», composti tra il 1883 e il 1908, sono riuniti in un esile e interessante volume, stampato in questi giorni da Medusa, Dante, Beatrice e l’ideale femminile (traduzione di Claudina Fumagalli, introduzione di Pasquale Di Palmo).
Ecco cosa pensa Gourmont degli amori provenzali e stilnovistici: «Succede così che una figura di donna serva a costruire questo edificio mistico; una realtà si idealizzava, si astraeva sino a perdere lo spirito poetico. È l’inizio di quella divinizzazione della donna che sarà completa con Dante e raggiungerà i suoi limiti con Beatrice. Ma Dante cercherà di introdurre nel suo ideale alcune particelle di reale, ed è proprio quello che sconcerterà il lettore».
Beatrice può anche essere esistita – scrive Gourmont – ma «resta così poca realtà umana alla donna creata dalla mente del poeta che è come se lei non fosse mai vissuta» (Di Palmo nell’introduzione fa leva sulla differenza tra la «statua aureolata» della donna e la mancanza di «trasporto amoroso» concreto). Tali affermazioni sembrano lacerare con caustico candore una tradizione risalente ai contemporanei di Dante; tuttavia esse hanno l’indiscutibile merito di porre un problema interpretativo di non piccola entità. Quanto il destinatario della poesia è vivido e pienamente conforme alla sua vera natura? Qual è il confine tra biografia e finzione poetica?
Vassallaggio dell’amore
Si è detto: Beatrice non è l’unica. Lo ricorda il compianto Marco Santagata nel corposo volume postumo, Le donne di Dante (con 226 illustrazioni a colori, il Mulino), che annovera una schiera di presenze femminili da far impallidire un vascello di bucanieri: la madre Bella, la sorella Tana, la moglie Gemma Donati, la figlia Antonia, le gentildonne Francesca da Rimini e Pia de’ Tolomei, la Donna Pietosa, la Donna Gentile, la Donna Pietra, Lisetta, Fioretta, Violetta e – last but non least – Matelda. Non tutte sono oggetto dei versi del Sommo, ma ognuna ebbe un posto preciso nelle opere e nella vita. Un fatto è certo: Dante trova salvezza soltanto per intercessione beatricesca (anche se a cavarlo dalla «selva oscura», non dimentichiamolo, intervengono primariamente la Vergine Maria e Santa Lucia). Lei, la Sancta Beatrix, una forza talmente salutare che santifica lo spazio letterario, ammansisce bestie e bestioni, e annulla ogni altra eventualità contemplativa («Vede perfettamente onne salute/ chi la mia donna tra le donne vede»). Tale tipologia di esperienza (il cosiddetto «vassallaggio d’amore»), lungi dall’essere prerogativa esclusiva di trovatori e trovieri, ha toccato parecchi autori novecenteschi, tra i quali spicca per dosaggi e scottature Eugenio Montale. Anche qui la lista muliebre è lunghetta e per nulla agile da manovrare: tre fanciulle negli Ossi di seppia (Esterina, Anna degli Uberti, Paola Nicoli), sei nelle Occasioni (Maria Rosa Solari, Gerti Frankl, Liuba Blumenthal, Dora Markus, Irma Brandeis e ancora Anna), sei nella Bufera e altro (Irma e Anna, Maria Luisa Spaziani, G.B.H., Marianna Montale, Drusilla Tanzi), quattro in Satura (Irma, Anna e Drusilla, Laura Papi) e tante altre disseminate qua e là (Gina Tiossi, Annalisa Cima, Margherita Dalmati, l’enigmatica Pilar).
Clizia e le altre
Insomma, l’eterno femminino è ben rappresentato nella poesia montaliana, che vede al vertice indiscusso di questo pantheon – la teoria di Gourmont sulla «divinizzazione della donna» ci va a pennello – Irma, ossia Clizia (la ninfa greca di un sonetto spurio attribuito a Dante) o anche Iride. La Brandeis era un’americana studiosa dell’Alighieri che, negli anni Trenta, sgambettava con i suoi «occhi d’acciaio» lungo le vie di Firenze (Montale era all’epoca direttore del Vieusseux). “Eusebio” – com’era stato battezzato da Bobi Bazlen, futuro fondatore della casa editrice Adelphi – perse letteralmente la testa per la leggiadra pulzella e cominciò una tormentata storia d’amore transatlantica che si concluse nella terribile estate del ’38 con la guerra alle porte e le leggi razziali (Irma proveniva da una famiglia di origine ebraica e contava nella sua genealogia Jacob Frank, eresiarca polacco del ’700, il quale predicava il ritorno di Dio in forma femminile). La Brandeis era tornata in Italia dopo qualche anno di assenza per “salvare” Montale, in preda alla disperazione, e il suo popolo, come ha scoperto Paolo De Caro in un libro dedicato all’esegesi di Iride, vero e proprio “Everest dell’interpretazione”.
Il saggio di De Caro – che uscirà in questi mesi e sarà un evento per la critica montaliana – propone di leggere in senso politico i versi cruciali della lirica, "ma se ritorni non sei tu, è mutata/ la tua storia terrena”. Fuor di metafora: Irma, cugina in secondo grado di Louis Brandeis, membro della Corte Suprema degli Stati Uniti e fautore del movimento sionista, viaggiò tra l’agosto e il settembre del ’38 a Lussinpiccolo e a Parigi per organizzare le operazioni di salvataggio degli ebrei disseminati in Europa. Il mito dell’«inconsapevole Cristofora», «continuatrice e simbolo dell’eterno sacrificio cristiano», com’è detto in un celebre autocommento, acquista così una stupefacente concretezza.
Ma, al pari di Beatrice, Clizia non è la sola. C’è Drusilla Tanzi, sua temibilissima avversaria, alias Mosca, sposata dal poeta nel ’62. Sono sue le «vere pupille, sebbene tanto offuscate» di Ho sceso dandoti il braccio. È lei che svetta con il «radar di pipistrello» nella meravigliosa sequenza degli Xenia. Se Clizia è la teologia, Mosca è la prosa, il quotidiano.
Non manca la filosofia, la «vita strozzata» con la leopardiana Anna degli Uberti, «genio di pura inesistenza» che Montale conobbe giovanissima a Monterosso. Annetta-Arletta, tematicamente legata all’identità dell’io lirico, vanta un record invidiabile: è presente dal primo all’ultimo libro dell’Opera in versi. Maria Luisa Spaziani è invece adombrata nella Volpe che, per un breve tratto di strada, contende lo scettro di «iddia» a Clizia: basti pensare che in uno dei flashes della Bufera, Sulla colonna più alta, i senhals (termine di origine provenzale che indica la traccia femminile nella carica lampeggiante di un sostantivo o un aggettivo) si sprecano: il dedicatario è tripartito. «Girasoli», «lampo», «vischio», «diademi» sono attributi di Clizia. «Corvi», «scura», «ali» di Volpe. «Capinere», «sterpi» di Arletta.
Si può dunque notare come sia intricato il bandolo delle apparizioni donnesche nella poesia di Montale, la cui tecnica di assemblaggio (o assembramento) è mutuata nientemeno che dal Petrarca. Del resto, l’autore genovese ci aveva avvertito sin dai tempi di Satura: «I critici ripetono,/ da me depistati, che il mio tu è un istituto./ Senza questa mia colpa avrebbero saputo/ che in me i tanti sono uno anche se appaiono/ moltiplicati dagli specchi».
Divinità in incognito
Il ruolo di comprimarie cliziane è svolto anche da altre donzelle, definite con hölderliniana destrezza «divinità in incognito». È il caso della poetessa e traduttrice greca Margherita Dalmati (nom de plume di Maria-Nike Zoroyannidis), il cui epistolario recentemente pubblicato da Archinto (Divinità in incognito. Lettere a Margherita Dalmati 1956-1974, a cura di Alessandra Cenni) ha messo in luce particolari suggestivi: un irresistibile Eugenio-Agenore scrive su carta intestata del Corriere della Sera: «Io ti posso dire soltanto che vivo con te ogni minuto e che la mia sofferenza mi aiuta a vivere». La cosa straordinaria è che nessuna di esse è una fotocopia dell’altra: ognuna conserva un aspetto della propria umanità che corrisponde a una prospettiva originale dell’esistenza trasfigurata in letteratura. Come ricorda il giovane santo Carlo Acutis, «tutti nascono originali».
E la poesia di Montale ce lo conferma. Però Clizia è Clizia (come Beatrice è Beatrice) e a lei va l’ultimo saluto del poeta – dopo oltre quarant’anni di silenzio! – in uno struggente biglietto del giugno 1981, a pochi mesi dalla morte, con una grafia tremante, da aracnide: «Irma, you are still my Goddes, my divinity. I prie for you, for me. Forgive my prose. Quando, come ci rivedremo? Ti abbraccia il tuo Montale».
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