Se la grande speranza di Andrea Segre era quella di appassionare i giovani alla figura dell’ultimo grande leader della sinistra italiana, ho idea che dai millennial in giù lo smarrimento sarà inevitabile: troppi riferimenti storici esulano dalle poche cose imparate sui banchi di scuola o, Dio ci scampi, dalla tv.

Berlinguer. La Grande Ambizione ha aperto ufficialmente la Festa del cinema di Roma numero 19, e l’ambizione vale anche per l’opera di un documentarista brillante che approda alla fiction. Il film di Andrea Segre, due ore densissime, va in sala il 31 ottobre con Lucky Red, e ai palati più inclini al genere action richiederà parecchio impegno.

La citazione del titolo viene da Antonio Gramsci: «Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è indissolubile dal bene collettivo».

Chi si è occupato per il cinema del Partito comunista italiano, il più grande partito comunista dell’Occidente, nei tempi recenti si è occupato soprattutto di Enrico Berlinguer. A cominciare da Walter Veltroni. La mia personale convinzione, di scarso o nessun rilevo, è che sia più efficace lo sguardo di chi si è occupato della base del partito, della politica vissuta nelle sezioni alla prova delle grandi scelte – soprattutto quelle mancate – come ha fatto Nanni Moretti nel suo Il Sol dell’Avvenire. Dubbi, incertezze e decisioni sono tanto più sofferti se la linea ti viene dall’alto, da un Comitato Centrale.

Il privato è politico

Segre ha costruito un biopic sull’uomo Berlinguer visto “da dentro”, secondo il vecchio assunto per cui “il privato è politico”, in quei cinque anni cruciali

 dal 1973 al 1978 di scontro sordo con l’Unione Sovietica e di costruzione di una via democratica al socialismo, sfida considerata impossibile. E ha puntato tutto su Elio Germano, chiamato a sottrarre ogni sospetto di teatralità a una figura intercettata in famiglia, tra i quattro figli e la moglie Letizia, nei confronti domestici che riflettevano, anche polemicamente, gli eventi esterni.

Eccolo quindi Berlinguer, «piccolo, gracile, silenzioso e riflessivo», uno che «studiava molto e scriveva moltissimo, parlava con grande calma e precisione, guardava negli occhi, ascoltava»: sono le sue prerogative, secondo Segre, così diverse da altri leader del Novecento, che lo hanno fatto amare da tantissimi italiani, anche da chi comunista non è mai stato.

Le tappe della storia 

Volto scavato, accento sardo e capelli “da Berlinguer”, con quel collo incassato tra le spalle specie nei momenti di tensione e quella sigaretta succhiata come un cannello d’ossigeno, Elio-Enrico appare in apertura di film non in veste ufficiale ma in una pausa di ginnastica da camera. È a Sofia, il 3 ottobre del 1973, alle prese con i vertici comunisti bulgari che gli rimproverano l’eccessivo interesse per il Cile di Allende e l’ affinità con la “democrazia plutocratica” abbattuta dal golpe. Subito dopo, il leader italiano sfugge a un attentato dei servizi segreti bulgari che ferisce lui e uccide l’interprete.

«Non è stato un incidente», racconterà alla moglie il giorno dopo, al suo ritorno, «ma dobbiamo tenerlo per noi perché per il Partito in questo momento sarebbe molto complicato». L’Unità infatti riferisce di una ‘unità di intenti per la pace e il socialismo’ di pura facciata, mentre la strada che Berlinguer persegue è radicalmente diversa: una collaborazione tra le forze popolari di ispirazione socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica. «Anche se raggiungessimo il 51 per cento alle elezioni – sostiene – senza un compromesso storico tra le forze che rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano non c’è futuro».

Il meglio del film sta però nel confronto – ben ricostruito – con gli operai del Petrolchimico di Ravenna, e di seguito con tutte le realtà di borgata dove il comizio diventa dialogo, mentre intorno i ragazzini giocano tranquillamente a pallone. Intercalate dal repertorio d’epoca, sono le facce e le domande che restituiscono un’Italia sepolta, forse anche più remota – nella rappresentazione – di quegli anni Settanta. Pacato, convincente, forse solo un pochino ingessato in quel ruolo carismatico, Elio Germano deve cercare di persuadere la base operaia del dialogo possibile con una Democrazia cristiana che – giustamente gli si obietta – «esprime solo maggioranze antioperaie».

Le tappe politiche ci sono tutte. C’è il referendum per abrogare la legge sul divorzio, voluto da Fanfani con l’appoggio dell’estrema destra (i fascisti, si dice chiaramente nel film). C’è la strage di Brescia e le elezioni del 1976, quando «un italiano su tre vota comunista». E via via il sudato percorso di un progetto che dalle false aperture di Giulio Andreotti (Paolo Pierobon) porterà a quelle caute, ma vere, di Aldo Moro (Bobo Citran, perfetto). La mannaia delle Br è la pietra tombale.

Inevitabile

Sull’intransigenza del Pci è tornato anche Marco Bellocchio nel suo Esterno giorno. Qui si ricerca la ragione umana nell’etica personale. Del rifiuto di trattare coi brigatisti, che varrebbe anche per lui in un caso consimile, il Berlinguer di Segre parla in prima persona alla famiglia riunita. È un risvolto inedito, come il collezionismo di bustine di zucchero attribuito ad Andreotti. Al filo rosso provvede la voice over dell’attore che attinge a brani di scritti, discorsi e lettere, con un’assenza di retorica decisamente encomiabile.

Didascalico? A tratti sì, inevitabile. Come sono forse inevitabili certe sintesi semplicistiche delle posizioni di Pietro Ingrao (Francesco Acquaroli) dentro il Comitato Centrale. La folla immensa ai funerali di Berlinguer, quel milione e mezzo di persone col pugno chiuso, è magari un finale scontato.

Ma la fiction, prima, si è chiusa su una nota privata: una lettera d’amore alla moglie. E tra tutti i flash domestici uno resta in memoria. Secondo un vecchio costume dei suoi sassaresi, B. ha nascosto una banconota di riserva in un libro. Non ricorda quale. La ritroverà dentro L’accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg. Fa simpatia.

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