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Sono decenni che abbiamo a che fare con Bill Murray e ancora non sappiamo cosa aspettarci. È il grado zero della scheggia impazzita, ormai calato a tal punto nel ruolo della wild card sotto tutti gli aspetti e in qualsiasi situazione da rendere impossibile stupirsi delle sue estrosità.
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In Live From New York, un saggio nel quale James Andrew Miller e Tom Shales raccontano la storia del Saturday Night Live, Bill Murray compare come una specie di santone altalenante: a volte mistico, a volte fuori di testa, ma sempre in qualche modo più consapevole dei suoi compagni d’avventura.
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Se c’è qualcosa da imparare dall’esistenza di un tipo come Billy, è tutto nella spontaneità che guida la sua vita e ogni sua azione. Niente è lasciato al caso, pur essendo tutto estremamente improvvisato. Ogni azione è figlia del momento che la genera, ma al contempo è assolutamente sensata, anche se solo per pochi istanti.
C’è qualcosa che lega il destino di Bill Murray agli ascensori. Forse è quel loro andare su e giù appesi alla consapevolezza di una portata massima facile da calcolare (per chi lo ha progettato), ma difficile da immaginare (per chi si trova a bordo e legge la targhetta). E malgrado anni, decenni, forse secoli di utilizzo del mezzo a fronte di un numero piuttosto ridotto di incidenti, ancora nessuno di noi può dirsi sicuro al cento per cento che farsi trascinare in verticale all’interno di una scatola appesa a un cavo sia in effetti una condizione nella quale sentirsi a proprio agio. Eppure, continuiamo a salire e scendere felicemente da ascensori affollati.
Sono decenni che abbiamo a che fare con Bill Murray e ancora non sappiamo cosa aspettarci.
La segreteria telefonica
La prima volta che ho sentito la sua voce per telefono ero su un ascensore a Los Angeles. Non era lui a parlarmi, ma la sua segreteria telefonica. Diceva: «Avete raggiunto Bill Murray. Sapete cosa fare. Se siete fortunati, qualcuno vi richiamerà». Forse esordiva con «congratulazioni!», non ne sono certo e mentre scrivo non ho modo di verificare: Bill cambia numero a un ritmo piuttosto elevato.
Avevo deciso di provare a chiamare Murray perché ero appena riuscito a trovare il contatto e non volevo perdere tempo. Inoltre, qualcuno mi aveva detto che quando bisogna fare una telefonata che ci rende nervosi, la cosa migliore è avere poco tempo a disposizione per non pensare troppo. Trentacinque piani in salita e dieci minuti in sala d’attesa mi sembravano fare al caso.
Ero preparato all’eventualità della segreteria telefonica, meno a cosa avrei detto. L’urgenza deve aver influenzato positivamente la mia capacità di improvvisazione perché qualche giorno dopo aver lasciato il messaggio, qualcuno mi ha richiamato. Non era Bill, per quello ci sarebbe voluto ancora qualche anno, ma andava benissimo comunque.
Imprevedibile
Murray è il grado zero della scheggia impazzita, ormai calato a tal punto nel ruolo della wild card sotto tutti gli aspetti e in qualsiasi situazione da rendere impossibile stupirsi delle sue estrosità. È così imprevedibile da poter prevedere con facilità che farà qualcosa di impensabile, insensato o sopra le righe. Il web è pieno di racconti, veri o presunti, comprovati o leggendari, di sue apparizioni improvvise, spettacolari entrate in scena e momenti di puro genio spontaneo. Su di lui circolano numerose biografie e supposte autobiografie che non fanno altro che rimettere in ordine cronologico gli aneddoti sparsi qui e là tra Chicago, New York, Hollywood, i campi da golf e il resto del mondo – l’ultima ad arrivare in Italia è stata quella di Gavin Edwards, L’arte di essere Bill Murray (Blackie, traduzione di Michele Martino).
Bill che compare di soppiatto alle spalle di una persona a caso per strada, gli benda gli occhi e chiede: «Chi sono?»; Bill che ruba le patatine dal piatto di una sconosciuta e le sussurra all’orecchio «Non ti crederà nessuno»; Bill che ai funerali di Elvis Presley, nell’anno della sua prima stagione al Saturday Night Live a 27 anni, si schiera (involontariamente, giura) di fronte all’enorme parata funebre e viene minacciato di morte da un poliziotto mentre si mantiene in equilibrio su una gamba per non calpestare la lapide della madre del re. Bill che, in buona sostanza, fa tutto quello che gli viene in mente quando gli viene in mente, attenendosi a una serie di princìpi che per chiunque altro al mondo sarebbero da considerarsi regole di cattiva condotta. Segue un elenco, con qualche lacuna, per non rovinare la suspense.
Gli oggetti sono opportunità
Vedere il caso delle patatine, ma anche di quando ha sottratto un cart durante lo Scandivanian Master, un importante torneo internazionale di golf, ed è stato visto intorno alle quattro del mattino aggirarsi molto lentamente per il centro di Stoccolma.
C’è da dire che l’alcol è una componente essenziale nel rapporto di Bill con qualsiasi cosa lo circondi. Un cucchiaio può facilmente trasformarsi in un percussore per bicchieri, bottiglie, pendole e teste degli astanti se sufficientemente inebriati. Il resto lo fa il talento musicale e l’istinto all’improvvisazione. Ecco, forse sarebbe bene dire che è proprio l’alcol a rappresentare la prima grande opportunità per scatenare Murray: ciò che viene dopo è più che altro consequenziale.
Il caso è un’aragosta
Tutta la follia di Murray comincia da prima di incontrare la fama planetaria. La notorietà gli ha solo fornito più occasioni di mostrarsi al mondo e un pubblico più vasto con il quale giocare. Quando era appena arrivato a New York non era raro incontrarlo, allampanato e trasandato, attraversare ripetutamente la stessa strada mettendo in guardia chi camminava nel verso opposto: «Attenzione! C’è un’aragosta a piede libero…»; e alla persona appena dietro: «Tenga, prenda un po’ di burro, è l’unico modo di acciuffarla».
Funzionava proprio perché nessuno lo riconosceva e un estraneo che mette in guardia da aragoste immaginarie può essere due cose: un matto dal quale stare alla larga, o un personaggio che vale la pena frequentare.
La musica unisce le persone
La seconda volta che ho avuto a che fare direttamente con Bill Murray, non me lo aspettavo. Ero in un bar dell’Upper East Side di New York, alla festa di compleanno di un’amica, quando la musica è cambiata improvvisamente: da un quieto motivetto lounge è passata a una specie di heavy metal suonato male.
Ci siamo voltati tutti verso la postazione della consolle e, dove doveva trovarsi un dj rosso di capelli sui 25 anni, c’era Mighty Billy che faceva rimbalzare la testa, fiero dell’improvviso gelo che aveva causato in sala. È durata forse tre minuti, poi la musica è tornata quella che era e lui è scomparso senza lasciare traccia.
Ho saputo dopo che le sue incursioni in quel bar avvengono con una certa regolarità e durano sempre solamente pochi minuti: finita la performance si dilegua attraverso un montacarichi di servizio che conduce ai locali seminterrati. Ascensori, di nuovo.
Insisti, insisti, insisti
Nel saggio Wild and Crazy Guys, in cui Nick de Semlyen racconta dell’ascesa della comicità folle e disincantata che ha investito la televisione e il cinema americano negli anni Ottanta, Bill Murray è sempre impegnato a menare le mani o minacciare di farlo. È quello che sta in disparte a rimuginare mentre gli altri – Den Aykroyd, John Belushi, Steve Martin, John Candy… – costruiscono il proprio successo film dopo film.
Quando gli viene offerta la prima occasione di diventare la star planetaria che il suo destino avrebbe voluto (Meatballs, diretto dall’amico e compagno di avventure Ivan Reitman), lui è sul punto di non presentarsi sul set, arriva in ritardo e approfitta di ogni occasione per ubriacarsi e boicottare il progetto. Quando in effetti lavora, però, è un genio di spontaneità e improvvisazione in grado di sollevare le sorti di una commediola di medio calibro e trasformarla in un cult.
È stato in quel momento, quando erano altri a dover insistere per lui, che qualcosa è scattato tra la sua ossessione per la libertà personale e la sua timidezza quasi patologica, e gli ha permesso di incanalare le energie in una sorta di flusso montante di ambizione che, dopo aver preso a pugni il suo ex amico Chevy Chase per lo stesso motivo, lo ha fatto arrivare in cima ai box office con miracoli come Ghostbusters e Caddyshack, campione di un primato assoluto.
I tuoi piaceri e i loro parametri
Anni dopo la prima telefonata alla segreteria telefonica (alla quale sono seguite altre in una specie di intervista per interposta persona che mi sarebbe dovuta servire per un progetto sulla vita di Hunter S. Thompson mai andato in porto) e al fugace incontro musicale, ho ritrovato Bill a Roma. Alloggiava in un hotel del centro dove spesso mi fermo a bere ed era al seguito della delegazione di Wes Anderson.
Stavo chiacchierando con un assistente di Anderson nel cortile tra la hall dell’albergo e il bar quando tutto intorno si è sollevato un trambusto di camerieri agitati che correvano da una parte all’altra. Il mio amico si è messo in allarme: sapeva che doveva entrarci Murray, ma aveva paura a chiedere.
Quando finalmente abbiamo scoperto cosa stesse succedendo, tutte le supposizioni sono andate al proprio posto: Mighty Billy si era infilato in un ascensore di servizio ed era rimasto bloccato tra il sesto piano e l’attico, dove stava cercando di raggiungere il resto dei suoi compagni di viaggio. La sua voce ci arrivava gracchiante dall’interfono di emergenza, per nulla allarmata, ma calma e suadente come quella di chi si è già trovato in situazioni analoghe.
Renditi utile
Quella stessa sera, dopo che Murray era stato liberato, ci siamo trovati tutti al bar e abbiamo bivaccato fino a tarda notte. Verso le due, Bill si è seduto a un pianoforte scordato e ci ha deliziati con un paio di classici dello swing sgraziati e incespicanti.
Quando mi sono avvicinato per salutarlo e congedarmi, senza che prima avessimo scambiato più di qualche parola, mi ha dato una pacca su un braccio e si è sporto in avanti, ammiccando in direzione della compagna di un amico che quella sera era con noi.
«Chi è la bionda?», mi ha chiesto a bruciapelo. «Posso parlarle?». Era tardi e di cocktail ed erano passati parecchi, quindi devo aver lasciato cadere la faccenda e lui deve essersi distratto. Il giorno dopo, però, nell’ascensore che ci portava in una sala della Festa del Cinema dove avrebbe ricevuto un riconoscimento alla carriera, quando gli ho chiesto come si sentisse, mi ha risposto: «Un po’ di mal di testa, ma sono abituato. Ti ricordi la bionda di ieri?», «Sì», «Se mi dai il suo numero in segreto prometto che non la chiamerò mai».
Io ho riso e lui ha riso, poi non ci siamo detti più niente finché, sul punto di varcare l’ingresso del retropalco non si è voltato: «Ricordati il numero!», mi ha fatto, serissimo.
In equilibrio
In Live From New York, un saggio nel quale James Andrew Miller e Tom Shales raccontano la storia del Saturday Night Live, Bill Murray compare come una specie di santone altalenante: a volte mistico, a volte fuori di testa, ma sempre in qualche modo più consapevole dei suoi compagni d’avventura.
Se c’è qualcosa da imparare dall’esistenza di un tipo come Billy, è tutto nella spontaneità che guida la sua vita e ogni sua azione. Niente è lasciato al caso, pur essendo tutto estremamente improvvisato. Ogni azione è figlia del momento che la genera, ma al contempo è assolutamente sensata, anche se solo per pochi istanti. Il suo andare su e giù, comparire e scomparire, esserci e non esserci, concedersi e negarsi, non è niente di programmato o studiato a tavolino, ma è l’unica condizione in cui Murray può esistere senza autodistruggersi.
È in equilibrio con sé stesso senza che un vero equilibrio esista. Come la capienza degli ascensori: sappiamo che a un certo punto basterà un solo grammo a spezzare il cavo, ma fino ad allora, continuiamo a fidarci del destino che li tiene su e li fa funzionare.
(Il numero della bionda non gliel’ho dato, ma scommetto che se ci incontreremo di nuovo me lo richiederà).
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