Nell’estate del 2014 avevo preso a frequentare i comedy club di New York con una certa assiduità. Rappresentavano un ottimo diversivo per una routine fatta di eventi, proiezioni e ore di scrittura solitaria. All’inizio andavo agli spettacoli, ma dopo poco ho cominciato a passare la maggior parte del mio tempo appoggiato ai banconi dei bar dei locali in attesa che salisse sul palco un comico che non avevo mai visto o che uno di quelli che conoscevo avesse delle battute nuove da provare. Per il resto chiacchieravo con gli artisti e con i manager, con gli stage assistant e con altri amici che avevano le mie stesse abitudini. Era più che altro un esercizio di resistenza: per la maggior parte di coloro che, in quelle sere, si trovavano tra il pubblico si trattava di un’occasione unica. Arrivavano, passavano un’oretta a bere, ridere e mangiare e poi tornavano alle loro case o ai loro hotel. Quelli come me si trattenevano fino alla chiusura.

Dopo l’ultimo spettacolo, io e i superstiti rimanevamo a tirare tardi fuori dai club o andavamo a cena in qualche ristorante vicino. Mi ero fatto un buon giro di conoscenze tra i ristoratori, soprattutto italiani, il che mi rendeva una compagnia piuttosto appetibile per i comici affamati e stanchi dopo il lavoro. Sapevano che dovunque saremmo andati avremmo trovato da mangiare a qualsiasi ora; presumibilmente a buon prezzo; in qualche occasione gratis.

Folgorazione

È stato in una di quelle occasioni che uno di questi insonni per vocazione, che all’epoca riusciva a portare a casa qualcosa come cinque set a sera – sei nei weekend –, dalle sette alle due, provando le battute in metropolitana e nutrendosi più che altro della frutta fresca che trovava in alcuni camerini, mi ha convinto che avrei dovuto leggere tutto ciò che aveva scritto Fran Lebowitz. L’ha definita «La più grande umorista che l’America abbia mai avuto». Aveva infinitamente ragione.

Conoscevo Lebowitz per averla incontrata qui e là, intervistata su vari giornali e riviste più o meno ogni volta ci fosse bisogno di qualcuno che esprimesse un’opinione netta e contraria alla massa, ma non avevo mai letto niente di suo che non fosse una citazione riportata. Quell’estate festeggiava trentatré anni di astinenza dalla scrittura e, per quanto ne sapevo, non poteva esserne più soddisfatta. «La differenza tra scrivere e parlare in pubblico è che parlando si può improvvisare fingendo di essersi preparati», mi avrebbe detto anni dopo per telefono, «scrivendo si è soli, e puoi avere tutta la faccia tosta del mondo, ma non puoi mentire a te stessa».

Ho cercato – e trovato con facilità – un volume pubblicato nel 1994 che raccoglieva integralmente i brani dei suoi unici due libri editi: Metropolitan Life (1978) e Social Studies (1981). È stata una folgorazione.

Un’altra New York

Quando il mio amico comico mi ha consigliato (imposto) di leggere Lebowitz eravamo da Donohue’s, un ristorante dell’Upper East Side di Manhattan che sembra non avvertire il passaggio del tempo, ma rimanere sempre cristallizzato in un’epoca che ha segnato la città e della quale ora restano solamente poche tracce. È seminterrato, quattro gradini al di sotto del livello della strada; la sala è lunga e stretta, simile a un antiquato treno di lusso: divanetti in pelle rosso scuro, tavoli di radica, tovaglie a quadretti; il menù propone quasi esclusivamente carne e pochi contorni: avventurarsi a ordinare qualsiasi cosa d’altro sarebbe per lo meno azzardato. Persino i camerieri di Donohue’s sembrano provenire da un’altra era: portano vassoi tondi e traballanti da una parte all’altra del ristorante, coppe da cocktail tintinnanti che svolazzano sospesi su un turbinio di grembiuli e un fruscio di livree. È la New York che ha formato Lebowitz, che ne ha affilato l’umorismo e inasprito il carattere. Una città più sporca e più cattiva di quella che conosciamo oggi, ma che ha imposto il marchio del mito nelle generazioni a venire.

Dopo averla letta, Lebowitz è diventata per me il perfetto commentario del posto che abitavo da straniero. Mi ha guidato mentre mi muovevo nella città che fu e che adesso è quasi completamente scomparsa, rimpiazzata da un posto nettamente migliore per viverci – e soprattutto per sopravviverci – ma molto più conforme a una norma per quelli che come lei non potrà mai mutare in una regola. Quella città nella quale Times Square era un insieme di postriboli e un formicaio di traffici illeciti, evitato con cura dai turisti e popolato da chi veniva con tante speranze in cerca di poca fortuna: Joe Buck e Ratso a ogni angolo, rintanati in ogni androne maleodorante e in ogni seminterrato malsano del centro di Manhattan.

Una città della quale si può avere nostalgia senza provare alcun affetto, comprensibile solo a chi l’ha vissuta.

Che Lebowitz non fosse mai stata tradotta in italiano mi sembrava un’assurdità non diversa da tante altre. Non era arrivata ai nostri editori in un periodo in cui alcuni lettori scoprivano la prosa di Woody Allen – al quale si sarebbe perfettamente accostata – e non aveva incontrato una seconda occasione, sempre per via della sua ostinazione a galleggiare in un blocco dello scrittore ormai, a oggi, quarantennale. Ad altri umoristi raffinatissimi e altrettanto internazionalmente noti è toccata più o meno la stessa sorte: di Steve Martin, benché negli anni Ottanta sarebbe diventato una delle icone della nuova comicità americana assieme a Bill Murray, Chevy Chase ed Eddie Murphy, abbiamo solo una traduzione ormai fuori catalogo e per arrivare a Nora Ephron, che pure abbiamo amato attraverso alcune delle commedie romantiche più celebrate e citate degli anni Novanta, abbiamo dovuto aspettare la sua morte. È un destino che tocca la scrittura umoristica più di altre, per via della difficoltà oggettiva di far ridere in una lingua diversa da quella per la quale è stata pensata. Argomento che spesso si trasforma in un pretesto bello e buono per non fidarsi delle capacità di contestualizzazione del lettore.

Eppure, l’immaginario di quella New York violenta, difficile e indomabile, lo abbiamo avuto e coltivato al punto da cercarla ancora sotto la superficie patinata di ciò che è diventata. Camminando per Central Park in alcune zone particolarmente selvagge e attraversando uno dei suoi tanti tunnel piastrellati non possiamo fare a meno di sentire la voce beffarda di Luther che chiama, «Guerrieri?»; allo stesso modo, passando sotto alla luce innaturalmente colorata del negozio delle M&M’s sulla Broadway dove in tempi di pre-pandemia non si poteva camminare senza sgomitare tra le orde di turisti accalcati e infastiditi dalla folla, non possiamo fare a meno di sentire la voce di Lebowitz proclamare: «Abbiamo costruito Times Square per voi, non la volete? Benissimo, la smantelliamo!».

Restituirle voce

Quando sono tornato a Milano ho scoperto che mi mancavano due cose, più di tutte: la stand-up comedy – che poi ho ritrovato – e quella voce. Così, approfittando di una collaborazione ormai proficua e di un paio di felici coincidenze, ho proposto a Silvia Trabattoni, che alla Bompiani cura la nonfiction, di provare a rimediare a una mancanza. Non sarei potuto cadere meglio: da poco, Stefano Bartezzaghi aveva cominciato a lavorare per restituire ai lettori una preziosissima e storica collana chiamata Amletica leggera, a suo tempo inaugurata da Umberto Eco, che aveva ospitato, tra gli altri, scritti di Paolo Villaggio, Beppe Viola, Marcello Marchesi, Charles Schulz e – come a farlo apposta – Woody Allen. Regalarle anche Lebowitz sembrava essere il naturale proseguimento di una nobilissima abitudine a prendere sul serio l’umorismo.

Mettere insieme il libro non è stato facile. La selezione dei testi, in sé, è venuta quasi spontanea, visto che si trattava di pescare in un bacino piuttosto limitato, ma Lebowitz non possiede un cellulare né un computer e per informarla della mia iniziativa ho dovuto raggiungerla per interposta persona attraverso una nota che lei ha conservato – mi avrebbe poi detto – «Nel taschino delle sigarette, la zona più importante della giacca». Nel frattempo, la macchina editoriale si era messa in moto ma, tra comunicazioni frammentarie e risposte flemmatiche, quando siamo passati alla traduzione erano passati altri due anni.

Restituire la voce che mi aveva accompagnato per tutto quel tempo e che mi era mancata a tal punto da volerla portare con me, ha richiesto una certa pazienza e un lavoro di cesello non indifferente ma certamente entusiastico. Lebowitz è secca, brutale, cadenzata: tutte doti che nella lingua italiana vanno utilizzate con cura per non rischiare di essere tacciati di sintesi. Adesso, però, è lì, in libreria dove avrebbe sempre dovuto stare, in una lingua che non è la sua ma che, con un po’ di fortuna, non l’ha tradita completamente. Per essere una scrittrice non scrivente da quattro decenni, non c’è male.


Fran Lebowitz è autrice del libro La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire, edito da Bompiani, tradotto e curato da Giulio D’Antona

copertina libro fran lebowitz bompiani

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