Questo è un nuovo numero di Cose da maschi, la newsletter di Domani dedicata a nuovi e antichi paradigmi di genere. Per iscriverti gratuitamente alla newsletter, in arrivo ogni due mercoledì alle 18.00, clicca qui
Penso sia la prima volta nella storia che allo stadio, durante i mondiali di calcio, nessuno possa bersi una birra. È noto come il Qatar, in osservanza al costume islamico lì in larga parte coincidente con le leggi dello stato, abbia resistito con successo alle pressioni culturali e di mercato che tentavano di fare delle partite di questo campionato una zona franca per il consumo della bevanda universale del tifoso – almeno per quello di chi va lì a tifare da altre nazioni, e magari dev’essere incoraggiato a ritornarci da turista.
Pare che alcuni temerari si siano comunque attrezzati ammantando le loro illegali lattine con rivestimenti in lattice che le camuffano da presentabili cocacole, e che sacchetti ripieni di birra, con lunghe cannucce filiformi, si contrabbandino addirittura in apposite tasche cucite nelle mutande. Di sicuro Budweiser, avendo incautamente previsto il consueto volume di vendite per un evento sportivo di massima portata, questo inverno è rimasta con ettolitri di invenduto che regalerà, dice, alla nazione vincitrice – peccato che il Belgio, patria di artigianali birre gourmet e ormai eterna favorita perdente delle competizioni calcistiche, sia stato eliminato: sospetto gliele avrebbero tirate dietro.
In ogni caso, la diatriba alcolica mi ha fatto pensare alla funzione della birra allo stadio. Serve a rilassarsi direi, ad accendere l’euforia, ad approssimare i tifosi fluidificando la loro festosa fratellanza o lenendo comuni delusioni. Ma non dovrebbe essere, questo, l’effetto dello sport in sé: del tifo dal vivo in quanto tale? Perché, in un contesto relazionale come una partita di cui si è spettatori, è importante condividere, oltre al gioco che si guarda, anche una sostanza inebriante?
D’altronde quella stessa sostanza è integrata in moltissime attività relazionali analoghe in cui i maschi si misurano con la dinamica del dialogo, del gruppo, della massa: dalle conversazioni intime, inaugurate da un tintinnio di bottiglie e condotte tra pensosi sorsi, alle feste che scimmiottano l’immaginario dei dormitori, delle confraternite, degli house-party americani riprodotti dai film e dalle serie con cui sono cresciuto. È a questo compito di carburante e lubrificante della socialità maschile, capace di fare i maschi prossimi e disinibiti senza minacciare la loro virilità, che ho dedicato il mio nuovo articolo sulla birra per Cose da maschi.
Trovate il pezzo qui nell’edizione online di Domani, e sabato prossimo lo troverete come di consueto in edicola con la versione a stampa della sempre felicissima illustrazione di Didier Falzone. Mi piace questo ragazzone da frat-house combinato coi ritagli di carta da Didier, col suo sorrisone inebetito tracciato a china poco sopra il possente collo da atleta, e quel cappello allucinante che lo trasforma in vassoio umano. I bicchieroni rossi di birra che ci tiene sopra sono protagonisti del mio articolo, che sciorina una serie di brani d’immaginario americano intorno alla maschilità gregaria della birra.
Avevo ipotizzato, essendo la rubrica in queste settimane dedicata alle forme della bromance, di insistere sugli episodi cinematografici e televisivi che tendono a mettere le birre in mezzo, come diaframma connettivo, quando due uomini, più o meno giovani, cercano di aprirsi l’uno con l’altro: mi interessava pensare all’amicizia emotiva, e a come tenda a imbeversi nell’alcol leggero e beverino, poco costoso, della birra per sentirsi autorizzata a verificarsi.
Il discorso però è diventato subito più generale, più strutturale. La questione, un po’ come per il calcio, è che a me la birra non piace granché, anche se la bevo volentieri per non interrompere la simpatia delle situazioni sociali in cui si tende a stapparla. Ma perché mi vergogno a sostituirla coi cocktail, che mi piacciono assai di più nella loro gustosa varietà, o col vino che pure era un grande medium di maschia goliardia nella mia adolescenza romana? E in senso più lato, più strutturale appunto, perché bisogna bere (o fumare, o comunque un po’ stordirsi e perdere responsabilità, lucidità) per fare amicizia tra uomini?
Mi auguro che troverete il tempo di leggere questa pagina un po’ impensierita, in questi giorni un po’ ingrigiti (almeno quaggiù in Connecticut) che ci avvicinano alla fine dell’anno. Ma mi auguro anche che troverete il tempo, magari durante le imminenti vacanze (per chi ce le ha), per immergervi nel nuovo romanzo di Ida Amlesù. Un romanzone avvincente, fine e popolare, di cui sono già a metà dopo sola mezza settimana di letture serali votate a un’appassionata distrazione dalle incombenze.
Appena l’ho visto tra le novità promosse da Sonzogno ho pensato non solo che dovevo averlo, ma che dovevo parlarne in queste lettere con voialtri che esplorate con me, ormai da dozzine di settimane, le strambe ragioni per cui dividiamo le cose tra maschili e femminili. Già dalla copertina si vede infatti che Amlesù, romanziera di ritmo e di cultura, è dei nostri: una spada da moschettiere divide, al centro di quell’immagine tricroma, le due apparenti metà della sua protagonista realmente esistita, Julie, che dà il nome al libro e, forse, ha dato a Riyoko Ikeda l’ispirazione per la più cruciale delle icone televisive della maschilità che ci interessa: Lady Oscar.
Ho ricevuto Julie in una grossa busta copiosamente affrancata. È un romanzo, infatti, lungo come una cavalcata: è un romanzo storico, un feuilleton che osserva, con una certa ironia postrema, i crismi del romanzo di cassetta di due secoli fa: quello che ha dato sostanza moderna alla suspense e all’esplosione di trame del romanzo di cavalleria, e che informa la narrativa seriale dei nostri tempi sempre più grand guignol.
Scritto con leggerezza di scherma, tra la prima persona e una serie di credibili falsi documenti corroboranti, racconta di Julie d’Aubigny, cantante d’opera e spadaccina contesa tra una socializzazione maschile e un addestramento alla femminilità. Nobile ripudiata, sposa promessa che fugge dall’imperativo riproduttivo, diva in incognito, serissima buffona, questa personaggia bisessuale dai molti travestimenti è stata già oggetto della penna di Théophile Gautier. Amlesù, che di teatro musicale ne capisce, le si dedica con una generosità verbale che non aveva ancora accordato ad alcuna delle sue scritture, rianimando davvero l’antico gusto queer per gli interminabili archi à la Dumas che chiunque abbia cuore amava, a fine Novecento, nelle puntate iconiche e infinite di Lady Oscar.
Smetto però qui di ricamare su questo romanzo incentrato sul potere liberante delle cose da maschi. Non solo perché ancora non l’ho finito, ma soprattutto perché molto meglio di me lo presenta Biagio Castaldo, uno studioso di melodramma, ricezione letteraria, genere e sessualità. Gli ho chiesto infatti di scrivere di Julie, e lui ha intessuto un arabesco impressionante, degno del grande autore cui sta dedicando i suoi studi dottorali tra l’università dell’Aquila e la New York University, Alberto Arbasino – che d’altronde, lo sapete, è il mio preferito.
Trovate l’articolo qui su Domani. Dire che è una recensione sarebbe poco: è una cavalcata, come quella condotta da Amlesù nel romanzo – ma una cavalcata da giostra, da carillon: minima e calligrafica, elegantemente risolta in sé laddove quella che descrive è a rotta di collo, sebbene corretta da una sprezzatura di cantante o (e) di cavaliere.
Sulla tastiera del computer di Biagio si verifica la rara convergenza di due stelle solitamente disallineate: quella della scrittura (ondivaga e controllata, raffinata e chiara, lucidissima e distratta) e quella della cultura (libresca e scanzonata, connettiva e focalizzata, allegra nel suo idiosincratico miscuglio). Il pezzo con cui ci invita a leggere Julie è anche un’informata, esilarante ricognizione dei paradigmi di genere a Versailles, delle addomesticate assurdità del barocco musicale, della cultura BDSM e, naturalmente, dei loro riverberi su bim bum bam.
Mi rallegra assai condividere con voi, attraverso l’erudita confidenzialità di Biagio, questo romanzo sul genere che ci ricorda quanto antiche (e storicamente divertenti) siano le questioni di sessualità che ci pare di aver inventato l’altro ieri.
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