Il problema di oggi non è la nostra mancanza di comprensione del pericolo antidemocratico. È la difficoltà di trasformare questa comprensione in qualcosa (non si sa bene cosa). Che ce ne facciamo di tutte queste analisi?
Capiamo, non capiamo. Vediamo, non vediamo. Abbiamo riconosciuto il pericolo antidemocratico, non l’abbiamo riconosciuto. Ci preoccupiamo molto, ci preoccupiamo poco. Ecco le dicotomie emerse in questi giorni, il linguaggio di un’epoca che oscilla fra la ricerca di giustificazioni e la costernazione. Alternanza di sentimenti e retorica della cecità.
Eppure, credo che non ci siano dubbi: abbiamo capito parecchio, e abbiamo visto parecchio, nel corso di questi anni politicamente impegnativi. Abbiamo osservato e assimilato. Non c’è stato alcun deficit di attenzione da parte nostra.
Leggere i fenomeni
Da tempo studiamo il paesaggio che si trasforma in qualcosa di sempre più riconoscibile e definito. Abbiamo assistito alla crescita di tutti i soggetti che man mano hanno rivelato di non essere un incidente della storia, ma un fenomeno organico, integrato nella cultura che si nutre di rancore, di semplificazione e di spettacolo (la frase trumpiana più interessante degli ultimi giorni non è «Zelensky è un dittatore senza elezioni», ma «Zelensky è un comico di modesto successo»).
Abbiamo visto la Brexit annunciare un’epoca di disgregazione, l’abbiamo istantaneamente chiamata, fin dal 2016, il nostro “momento Arciduca Francesco Ferdinando”, per indicare la spintarella in cima al piano inclinato, l’innesco. (Mentre scrivo ricevo il messaggio di un’amica: «In realtà è cominciato tutto con la morte di David Bowie». E io rido, perché cerchiamo rifugio nella battuta, e anche questo talvolta è un problema).
Forse l’unico che ci abbiamo messo un po’ più di tempo a inquadrare è Elon Musk. Infatti lui potrebbe riservare altre sorprese, perché si muove dentro il linguaggio della follia. Ma a parte le eccezioni, abbiamo visto tutto e abbiamo aggiornato con cura, via via, la nostra soglia del possibile.
Ci siamo poi disposti a studiare i precedenti, compilando analisi e costruendo mappe per orientarci nella distorsione. Siamo diventati lucidissimi. Il problema di oggi, dunque, non è la nostra mancanza di comprensione. È la difficoltà di trasformare questa comprensione in qualcosa (non si sa bene cosa). Che ce ne facciamo di tutte queste analisi?
Le cause del disastro
Elencherò ora cinque cause del disastro. Lo faccio perché sembrano suggerire cosa fare, o perlomeno cosa non fare.
La prima causa è proprio questa paralisi da sovrabbondanza analitica. Sviscerare ossessivamente. Un’iper-consapevolezza che non si traduce in potere d’azione, ma spesso in sovraccarico cognitivo. Un fenomeno che chiamerei lucidità sterile: vediamo tutto, ma non sappiamo dove e come incidere. Lucidità che diventa paradossalmente torpore.
La seconda causa è il mito dell’autoregolazione democratica. L’idea che il sistema si gestisca da sé. Si pensa che esista un punto oltre il quale le cose non possono degenerare, perché i meccanismi interni impediranno il crollo. Ma in realtà quel punto non esiste. La democrazia può collassare pezzo dopo pezzo senza mai dichiarare il proprio fallimento. Collassa per mano umana. E noi paghiamo un’illusione di smaterializzazione: il mito dell’autoregolazione ha qualcosa in comune con l’idea che il mondo sia animato da strutture, non da persone.
La terza causa è che la battaglia culturale si è ribaltata in un amen. Chi vuole distruggere la democrazia lavora molto bene sulla cultura popolare, sulla percezione, sul linguaggio. Stanno accumulando vittorie semantiche rapidissime. Intanto, la difesa della democrazia viene continuamente (da anni ormai) associata a un discorso moraleggiante, elitario, accademico. O addirittura: “cose da Financial Times”. Chi attacca la democrazia usa meme, semplificazioni, racconti umorali. Chi la difende si consuma in spiegazioni. Forse è il caso che la comunicazione dei difensori diventi più radicale.
La quarta causa è il tabù dell’organizzazione. Chi attacca la democrazia sa organizzarsi, fare gruppo. Chi la difende, invece, si muove in modo frammentato, circospetto, sulle uova. Crediamo ancora che basti la “buona informazione”, la “presa di coscienza”, la denuncia morale. Di nuovo, si pecca di smaterializzazione, come se le idee avessero gambe e braccia.
La quinta causa è la vanità della cautela. Chi difende la democrazia è spesso troppo prudente: ama esserlo, lo trova elegante. Attenzione: il dubbio è una virtù democratica fondamentale, l’ho sostenuto spesso. È una necessità educativa. Ma diventa un problema quando chi sta dall’altra parte di dubbi non ne ha nemmeno uno. Siamo ossessionati dalla paura di diventare dogmatici. Questo non è efficace.
Forse bisogna tornare ai gesti e alla materia. La democrazia, come l’amore, è anche una cosa che si fa.
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