«Avere informazioni sulla vita del cantante non è di particolare aiuto nel comprendere una canzone (...) Quello che importa è ciò che la canzone ti fa provare rispetto alla tua vita». Lo scrive Bob Dylan nelle prime pagine della sua Filosofia della canzone moderna (Feltrinelli), una raccolta di brevi saggi attorno a 66 brani del cuore, playlist dell’artista da giovane di gusto finissimo e retrò, da Ricky Nelson a Elvis, Sinatra, Grateful Dead, Temptation, i Clash e Domenico Modugno, viaggio guidato nel cosiddetto American Songbook, curioso libro strenna zeppo di foto d’archivio e leziose cornicette grafiche.

L’osservazione sulla biografia dei cantanti è pertinente, bisogna ricordare che arriva da uno al quale negli anni Sessanta frugavano nei bidoni dell’immondizia davanti casa per rubare segreti o scoprire eventuali tradimenti della causa. D’altra parte, continua Dylan un centinaio di pagine più avanti, «quando gli autori di canzoni scrivono della loro vita, quello che ne esce può essere così personale che gli altri non si possono identificare. (...) Sinatra ci ha mostrato infinite volte che una cosiddetta canzone cuore/amore ti fa stringere il cuore».

Siamo nel capitolo dedicato a Old Violin di Johnny Paycheck, un cantante country degli anni Sessanta che aveva preso il suo nome da un pugile sconfitto da Joe Louis e che, mentre gli altri pretendevano di esserlo soltanto, fuorilegge lo era davvero.

Finì in galera per aver mezzo accoppato un tizio e quando uscì scrisse la canzone: guardandosi allo specchio diceva di sentirsi come un vecchio violino messo da parte che nessuno suonerà mai più. Poteva cantarla soltanto lui, conclude Dylan, invitandoci a riascoltare questo capolavoro dimenticatissimo. Ci sono tre grandi illustrazioni in questo capitolo: una foto di Johnny Paycheck, Alfred Einstein che suona il violino, il quadro vaporoso e pompier di un Pulcinella ottocentesco.

L’ultimo ballo

Annunciato da una decina d’anni, il volume sembra legato all’esperienza da conduttore radiofonico fatta dal cantante tra il 2004 e il 2009 con il suo Theme Time Radio Hour, un’ora di canzoni a tema (il caffè, il baseball, la prigione, il matrimonio...) inframezzate da qualche chiacchiera nello stile dei dj di una volta, scritto assieme all’autore tv Eddie Gorodesky.

Totalmente privo di contesto, introduzioni e qualsiasi altra spiegazione – in perfetto stile dylaniano – con la grande dedica iniziale a Doc Pomus, uno dei grandi autori americani di testi in coppia col musicista Mort Schuman.

«Pomus, vittima della poliomielite, stava su una sedia a rotelle il giorno del matrimonio a guardare sua moglie ballare con suo fratello e intanto scriveva i versi di Save the Last Dance for Me», ricorderà a un certo punto Dylan che lo aveva conosciuto bene (è scomparso nel 1991). Quasi si morde la lingua perché un retroscena così toccante, dice, potrebbe cambiare per sempre il senso di una canzone popolarissima, interpretata per la prima volta dai Drifters: «Divertiti con chi vuoi babe, ma lascia l’ultimo ballo per me».

Allo specchio

Motivo principale, dietro il gioco della playlist e altre innocenti ossessioni, è quello di rendere omaggio a una tradizione, nominare gli autori, gli artisti minori (Bobby Darin, Ricky Nelson, Dion), i musicisti che hanno fissato l’attimo su un nastro magnetico. Per il Dylan premio Nobel mostrarsi parte integrante – una specie di figlio del secolo – di una delle grandi arti americane del XX secolo.

«Se volete ascoltare una canzone politica provate questo – provoca ascoltando Feel so good, uno scatenato rockabilly di Sonny Burgess – Se vi state domandando come rendere l’America nuovamente grande, forse questo disco vi darà qualche idea».

Può darsi che la Filosofia della canzone moderna abbia poco a che vedere con le inquietudini americane di Theodor W. Adorno esule dal nazismo, al quale fa il verso nel titolo. Eppure nelle canzonette la storia vibra come un sismografo: nel Cavaliere di mezzanotte (Midnight rider) degli Allman Brothers, Dylan riconosce «il cittadino rispettoso delle leggi (...) che fa della violenza uno strumento del bene». E commentando la notissima War di Edwin Starr aggiunge: «Per vedere un criminale di guerra non dovremmo che guardarci allo specchio».

Autoritratto

Scrive ancora, analizzando una vecchia ballata di Judy Garland: «Durante gli anni Sessanta era normale per i presuntosi mattatori della scena musicale guardare dall’alto in basso i cosiddetti scribacchini di Tin Pan Alley, con le loro rime fatte di fiori, cuori, ardori e batticuori».

Parla di sé. Degli anni in cui aveva buttato all’ortiche il rock’n’roll e il rhythm’n’blues col quale era cresciuto a Duluth per abbracciare il blues di campagna e il folk più esoterico ma più vero, cambiare città, cambiare nome, reinventarsi da zero una biografia fatta di treni presi al volo, bluesmen del Delta che gli avevano trasmesso i loro segreti, poeti Beat.

Come si sa, il primo tradimento non tardò ad arrivare: la chitarra elettrica in Like a Rolling Stone e il grido dal pubblico «Giuda». Nel 1970 Dylan incise Blue Moon di Sinatra in maniera così naïf e assurda che tutti pensarono a una presa in giro. Ma titolò quell’album Self Portrait, autoritratto, sempre per sottolineare il difficile rapporto tra le canzoni e i cantanti, e in copertina c’era un suo quadro. Una parentesi: il Dylan pittore – ulteriore indagine sul rapporto tra artista e opera – è protagonista di una curiosa mostra al Maxxi di Roma, prima in Europa di questo genere, aperta fino ad aprile. Tra il 2014 e il 2017 sono usciti ben tre dischi di standard americani dagli anni Trenta ai Cinquanta, il primo tutto dedicato a Sinatra, ancora.

Omologazione da streaming

Questa Filosofia è un libro che chiede tempo e fiducia. Si legge con Spotify aperto davanti, a metà tra una maxi trasmissione radiofonica e una lezione universitaria. In una recente (e rara) intervista al Wall Street Journal, anche Dylan si domanda quale effetto lo streaming produca sulla nostra percezione della musica.

È tutto troppo facile, senza fatica, dice. Basta muovere un dito per trovarci nella corrente del grande fiume con gli «scarichi industriali, i detriti chimici, le rocce e il fango, accanto a Brain Wilson e ai suoi fratelli, ai comici e ai cantanti pop». 

Anche per questo all’inizio di ogni capitolo si lancia in una spericolatissima parafrasi di ogni canzone, una specie di cover verbale dove riconosciamo il suo ritmo e pure qualche verso (qui nella traduzione di Alessandro Carrera), che è insieme nostalgia di un’epoca e l’esercizio di una sensibilità minacciata dal “tutto uguale”.

Amore e traffico

Così una delle hit di Little Richard diventa mito di fondazione: «Long Tall Sally era alta tre metri e sessanta. Veniva dall’antico passato biblico, a Samaria, dalla tribù di nome Nephilim, giganti che sono vissuti prima del cataclisma del diluvio».

E ha un altro sapore Beyond the Sea di Bobby Darin (“Qualcuno mi aspetta/ sulla sabbia dorata”), se è raccontata come la storia di quello che è “tornato da dove era partito”, un marinaio o forse un astronauta.

E I got a woman di Ray Charles (“Ho una donna/ dall’altra parte della città/ mi ama giorno e notte”) il ripetersi quotidiano di quella strada da fare, tornare a casa dal lavoro finché il viaggio e l’amore diventano una routine: «A poco a poco il desiderio svanisce, ma il traffico prosegue in eterno».

L’umanità del tempo

La riscrittura più sorprendente è però My Generation, degli Who, quella in cui la gente vuole umiliarti e prenderti a schiaffi, tu e la tua generazione. Qui Dylan ha in serbo un colpo di scena per il protagonista: «In realtà sei un uomo di ottant’anni portato in giro in carrozzina in un ricovero per anziani, e le infermiere ti danno sui nervi».

Alla sua età ha tutto il diritto di spazientirsi per essere passato dall’altra parte della barricata, e per tutte le banalità stile ok boomer: «Alcuni dicono che sono essenzialmente i figli disobbedienti a fare il mondo moderno. Non sembrano capire che anche loro un giorno saranno vecchi e tra i piedi», aggiunge commentando Old and only in the way ("Vecchio e tra i piedi") di Charlie Poole, una meravigliosa ballata del 1928.

Non si tratta di ribellarsi al tempo, ma di renderlo umano: «La musica appartiene a un tempo ma è anche senza tempo, una cosa con cui creare memorie, e anche la memoria stessa», commenta infine a proposito dell’ultima delle 66 canzoni della lista, When and where di Dion, cronaca di un incontro magico che sembra essere già accaduto: «Qualcosa accade per la prima volta/ qualcosa sembra succedere di nuovo/ sembra che ci siamo già incontrati e amati». Senza mancare di ricordare che il paroliere Lorenz Hart «disprezzava il proprio aspetto al punto da odiare sé stesso», e avrebbe potuto trovare attraente un’esperienza di reincarnazione.

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