- Per una buona metà l’autobiografia di Bono Vox Surrender (Mondadori) è il copione extralarge di uno spettacolo che il cantante degli U2 potrebbe di qui a breve portare in scena.
- Il libro dell’icona degli U2 va dalle canzoni d’amore a “Cancella il debito” passando per il Bloody Sunday
- Ha tolto gli abiti del predicatore, ma ha tenuto il difetto di prendersi troppo sul serio.
Per una buona metà l’autobiografia di Bono Vox Surrender (Mondadori) è il copione extralarge di uno spettacolo che il cantante degli U2 potrebbe di qui a breve portare in scena. Una vita raccontata in 40 canzoni, un greatest hits malinconico, quasi a riflettori spenti, simile a quanto Bruce Springsteen ha fatto in teatro a Broadway pochi anni or sono.
Bono ne ha dato un’anteprima l’altro giorno nel programma di Stephen Colbert dove ha recitato parte del capitolo ispirato a With or Without You, la canzone scritta nel 1987 per sua moglie Ali poi cantata in un nuovo arrangiamento per arpa, violoncello, percussioni.
«Ero innamorato e avevo paura che non sarei mai riuscito a scrivere una grande canzone d’amore perché avevo il cuore pieno e non spezzato», ha detto. With or Without You (Con o senza di te/ non posso vivere) diventò invece una delle più amate degli U2, basata sulla progressione del Canone di Pachelbel con un crescendo atmosferico disegnato da Brian Eno, «frutto di un’indigestione di Roy Orbison», secondo i ricordi di Bono.
L’altra metà
L’altra metà di Surrender, decisamente la più interessante, è il diario inedito e ad alto tasso di rivalutazione (considerato lo stato di cose presenti) di uno dei protagonisti dell’attivismo politico pop tra gli anni Novanta e gli anni Zero.
Gli incontri con Bill Clinton e Tony Blair, i Rem e Luciano Pavarotti, Gorbaciov in visita a Dublino che bussa alla porta di casa con un orsacchiotto in regalo per le bambine e racconta di Chernobyl, la pace in Irlanda, la guerra di Bosnia, la campagna per la cancellazione del debito, Bush jr., Condoleezza Rice che fa jogging con i Led Zeppelin nel walkman.
«Morivo dalla voglia di usare la fama per qualcosa di più utile che trovare un tavolo in un ristorante pieno», commenta ancora Bono, che in quegli anni partecipa al cambiamento dei riti della politica e della comunicazione pubblica, anzi in qualche modo li provoca prima dell’arrivo fatale della rete e dei social.
Si muove come «una rockstar senza cognome che canta in un gruppo chiamato come un aereo da ricognizione», scherza ricordando i suoi spericolati incontri con congressisti e lobbisti a Washington.
Al papa Giovanni Paolo II riuscirà a fare indossare i suoi occhiali blu da rockstar, Dolce & Gabbana: nascosta per decenza, la foto – notevole – venne fuori anni dopo.
Con l’esergo di Bob Dylan, fratello maggiore di tutti i musicisti che vogliono cambiare il mondo, Surrender ha un’unica dedica proprio per Ali Stewart, attivista, protagonista di campagne ambientali e sociali. Stanno insieme da 40 anni. Sposati nel 1982, giovanissimi, ma si erano conosciuti a scuola molto prima.
Il patron dell’etichetta discografica Island Chris Blackwell – per la quale erano usciti i primi due album degli U2 – li aveva mandati in viaggio di nozze in Giamaica nella sua residenza Golden Eye, dove Ian Fleming aveva scritto 007 e Sting Every Breath You Take, e anche per via di questa casualità il misticismo di Bob Marley ispirò il tono delle canzoni del successivo album degli U2 War, tra le quali Sunday Bloody Sunday, in assoluto la più famosa.
Suonandola nel suo primo atto da musicista “politico” durante un concerto americano, poi finito nell’album Under a Blood Red Sky, Bono dal palco avvertiva: «Questa non è una canzone ribelle». Non lo era in effetti, nonostante il tamburo marziale e il riff di chitarra che l’accompagnava.
Compromesso
Gli amatissimi Clash potevano permettersi di invidiare i ragazzi rude giamaicani che si scontravano con la polizia sotto la Westway a Portobello; quattro ragazzi di Dublino cresciuti con le notizie dei massacri e degli attentati alla tv, «nazionalisti all’acqua di rose», non avevano nessuna voglia di glorificare l’Ira e i gruppi paramilitari repubblicani.
Bono durante alcuni concerti strappava il verde e l’arancio dalla bandiera irlandese per sventolare una grande bandiera bianca, in tempi in cui la cosa poteva comportare qualche rischio anche personale.
«Compromesso è senz’altro una delle parole sottovalutate del vocabolario», scrive oggi, non soltanto per sfoggio di saggezza boomer. «Pace non significa nulla senza una cornice», ripete. Bob Marley è qualcosa di più di un simbolo. Il giorno del referendum che chiudeva il processo di pace in Irlanda il cantante irlandese chiamò sul palco di un suo concerto a Belfast i leader unionisti e i repubblicani, proprio come Marley aveva fatto in Giamaica con i candidati arcinemici Manley e Seaga. Quanto al lato mistico della questione, il rastafari di Bono esiste, è un motivo profondo della musica degli U2, anche se per qualche ragione è sempre stato trascurato dalla critica e anche dal pubblico.
Membro con The Edge e Larry Mullen della comunità di rinnovamento spirituale Shalom a Dublino, per la quale rischiò di sciogliere la band, grande lettore della Bibbia soprattutto nella fase The Joshua Tree, Bono aveva imparato a muoversi sul palco come un curioso predicatore cristiano, mezzo sciamano, mezzo Spiderman. A pregare prima di ogni concerto per essere «unto dal Signore e portare ai poveri la buona novella» secondo la formula del profeta Isaia.
La produzione di Brian Eno, con gli echi e la spazialità della chitarra di The Edge, evocava gli antichi inni protestanti negli spazi vuoti di una cattedrale, proprio come i Joy Division – altra fondamentale influenza degli U2 – evocavano i vuoti delle fabbriche abbandonate (e i Clash le rivolte nelle strade), ma nel caso degli U2 non era solo una metafora.
«Tra le priorità del dio dell’Antico e del Nuovo Testamento la povertà è seconda solo alla redenzione (...) Al cuore del cristianesimo c’è la vita dei poveri», scrive Bono rievocando la serata del luglio 1985 a Wembley, quel Live Aid che «cambiò la concezione della musica pop come strumento per aiutare concretamente il mondo».
Prendersi sul serio
Il tempo che è passato da allora – quasi 40 anni – addolcisce la maggior parte delle critiche alla dabbenaggine e alla velleità dell’operazione. Bono ha dismesso gli abiti del predicatore ai tempi dello Zooropa Tour, anni Novanta, quando preferiva andare in scena come una rockstar divertita e decadente. Ha tenuto il difetto di prendersi un po’ troppo sul serio.
Dai ricordi di Surrender non è mai assente la battuta a effetto del paroliere rock ma lo sguardo è lucido, altro motivo di interesse di questa autobiografia. Sul senso generale, politico, della beneficenza in un mondo globalizzato, cita un proverbio senegalese: «Se vuoi tagliare i capelli a un uomo, assicurati che sia lì con te». Resta l’utopia evangelica, un po’ chierichetta, un pizzico di disillusione.
«La musica è la ragion d’essere di sé stessa», commenta il Bono di oggi che non ha esitato però ad andare di recente a Kiev con il suo fratello chitarrista The Edge per suonare sotto la metropolitana trasformata in rifugio antibombe.
Il Live Aid raccolse 250 milioni di dollari da destinare all’Etiopia.
Salvo poi accorgersi che il continente africano pagava ogni anno la stessa cifra per i suoi debiti coi paesi ricchi.
E quello fu il punto di partenza della campagna “Cancella il debito” a cavallo del giubileo del 2000. Dopo aver incontrato Clinton, Bono fece il lobbista a Washington, trovò un alleato nel deputato dell’Ohio John Kasich al quale piacevano da matti i Radiohead.
Superò le obiezioni del repubblicano dell’Alabama Sonny Callahan, il quale disse chiaro e tondo che i soldi «sarebbero finiti nel cesso» della corruzione di quei paesi. «Siamo tutti arrabbiati per la corruzione – osservò il cantante – ma i destinatari delle risorse sono ancora più arrabbiati».
La strategia “abbiamo incontrato il nemico e non ha tutti i torti”, ricorda ancora, l’avrebbe portato anni dopo a discutere con il repubblicano ultracristiano Jesse Helms sfidandolo sulla sua conoscenza della Bibbia, con Rupert Murdoch e Condoleezza Rice, nel tentativo di far finanziare il programma Data per la cura dell’Aids in Africa.
«Ti sei venduto per un pugno di lenticchie», lo accusò in quell’occasione George Soros. Si può soppesare meglio, oggi, il valore dei compromessi.
Ricordare con qualche nostalgia un mondo in cui destra e sinistra potevano ancora parlare un linguaggio comune. Oppure no. Ma quelle lenticchie, a conti fatti, valevano 100 miliardi di dollari.
© Riproduzione riservata