Quando si parla della tragedia che da anni si consuma nel Mediterraneo, lo si fa, ormai, in modo astratto. I morti sono solo numeri, cifre che si accumulano e che, nel loro ammonticchiarsi, dovrebbero pesare sulla coscienza collettiva, ma così non è.

Al dramma dei migranti morti in mare ci siamo abituati con la stessa facilità con cui ci si arrende a ciò che non possiamo cambiare. Alcune persone, però, continuano a lottare, a fare ciò che possono perché quelle cifre, quelle dei morti snocciolate come fossero nulla, non si alzino ancora e ancora.

Queste persone non salvano solo le vite dei migranti, ma anche noi stessi e l’umanità nel senso più profondo del termine. Tra queste, Caterina Bonvicini che sulle sue missioni con le ong ha scritto un libro, Mediterraneo (Einaudi, 2022). Una narrazione onesta di quel che accade alle porte d’Europa, inframezzata dalle foto di Valerio Nicolosi, pure lui imbarcatosi più volte.

Prima sensazione, una volta sbarcata?

Stanchezza. In nave non l’avvertivo ma tornata a terra mi è piombata addosso. In missione non puoi permetterti di sentirti stanco, devi essere sempre vigile: dalla tua attenzione dipendono delle vite; siamo rimasti svegli per settantadue ore, una volta. È come se il tuo corpo non si concedesse la libertà di stancarsi, mentre sei in nave.

Tra le prime cose che racconti in Mediterraneo, ci sono i morsi che trovate sulle caviglie dei migranti.

La nostra immaginazione è banale. Pensiamo ai migranti morti in mare, e ce li figuriamo affogati in un naufragio, ma non si muore solo così. Succede, sì. I migranti a volte vengono balzati fuori dai gommoni e muoiono soli in mezzo al mare o, appunto, nei naufragi, ma non è l’unico modo. Certi affogano nello stesso gommone, e qui arriviamo ai morsi sulle caviglie.

Cosa succede?

Nei gommoni si accumulano sempre venti centimetri di un misto di acqua di mare, carburante, che viene fuori dal serbatoio, ed escrementi, mica hanno i bagni: devono farsela addosso, in piedi, fermi. Si crea questo miscuglio in cui viaggiano per giorni, e se uno di loro sviene o si accascia non ci riesce, poi, a rialzarsi: sono troppi, e troppo stretti. Finiscono quindi con la faccia in questo liquame che è alto pochi centimetri ma abbastanza per affogare. Allora la sola speranza che hanno è di farsi largo tra i corpi degli altri. E per farlo mordono le caviglie di chi è vicino.

Foto di Valerio Nicolosi

Quanti anni hanno?

Sono di tutte le età, spesso molto giovani. Un’amica di Sos Méditerranée mi ha raccontato di aver trovato i cadaveri, giusto pochi mesi fa, di due ragazzini. Quattordici e diciannove anni, erano gonfi d’acqua, sfigurati. Lei è saltata sul gommone per recuperare i corpi, ma c’era mare mosso e la nave non è riuscita ad avvicinarsi. Aspettavano condizioni migliori, e lei è rimasta sul gommone, in attesa per mezz’ora, con i due cadaveri.

Quando vengono salvati, da un punto di vista psicologico come stanno?

Dipende. Alcuni sono solo felici di essere salvi, altri spaventati. Spesso sono stanchi, e in nave crollano: il minuto prima c’è casino, quello dopo il silenzio è incredibile. Capita che abbiano domande. I bimbi piangono, urlano. E capita che, da un momento all’altro, s’intristiscano. Fissano il mare, piangendo in silenzio. Pensano a chi hanno lasciato dietro, a chi è morto nella traversata, a quello che hanno passato nei lager libici.

Nel libro parli dell’odore della disperazione: che odore fa la disperazione?

Feci, urina, sudore, vomito e benzina.

Il puzzo era orribile, ma in nave non lo soffrivi. Eri stanca dopo il viaggio, ma non durante. Il tuo corpo si è messo in pausa?

Il cervello, in emergenza, non ti fa sentire determinate cose. La mente è così sconvolta da ciò che succede che non concede ai sensi ti concentrarsi su altro. Avevo i piedi ustionati dalla benzina, e me ne sono resa conto dopo tre giorni.

Mi racconti il tuo primo salvataggio?

In tutto ho partecipato a otto salvataggi. Per il primo stavo sul ponte ed è stato semplice. Quarantanove in un barchino di sei metri.

Ce ne sono stati di complicati?

Sì, tre.

Cosa ricordi soprattutto?

Il panico.

Tuo?

Mio, loro. Ci ammantava.

Hai avuto paura?

Sì. I migranti, terrorizzati, si lanciavano sul gommone, ci si tuffavano dentro. Erano spaventati e noi eravamo la loro sola salvezza, una salvezza in cui forse ormai stentavano a credere. Uno cadendo ha pigiato l’acceleratore, e il nostro gommone è schizzato via: stavamo per finire in acqua. Uno è caduto su una donna incinta, e lei ha preso a urlare, a dimenarsi.

Senti la responsabilità delle loro vite, in quei momenti?

Stavo allacciando il salvagente a un bimbo. Attorno a noi i migranti urlavano, cercavano di arrivare sul gommone saltando, tuffandosi. E io pensavo: ora mi scivola dalle mani, ora il bimbo mi scivola dalle mani e cade in mare.

Pensi mai a questo bimbo?

Sì, spesso.

Foto di Valerio Nicolosi

C’è qualcuno che ti è rimasto più dentro?

I miei, di bambini. Un maschietto e una femminuccia. Oggi vivono in Francia, ma per un po’ sono stati in casa mia, assieme alla madre,  pure lei salvata nel Mediterraneo. Prendono lezioni di judo, le paghiamo io e mio marito, e giorni fa hanno vinto una gara. Pensa, erano sul giornale locale! Quei bimbi, senza le Ong, sarebbero morti, invece oggi hanno una casa, fanno sport. Sono vivi. Madre e figlia le ha salvate Ocean Viking. Io ero in missione con loro, ero in nave, e la mano della donna, a bordo di un gommoncino in avaria, l’ho stretta io. L’ho stretta e l’ho tirata su dal mare. Con lei c’era la figlia, all’epoca aveva cinque anni, ma non il maschietto; non l’avevano fatto imbarcare, era in Libia.

In che condizioni erano?

La madre è svenuta non appena è partita dalla Libia, ha fatto l’intero viaggio in stato d’incoscienza e in nave è dovuta restare due giorni in infermeria. Sua figlia stava abbastanza bene. Era contenta di essere salva, e sorrideva sempre. Era preoccupata per la madre, però. È stata con lei in infermeria, a vegliarla, per tutta la prima notte.

Il maschietto, invece?

Quando ho saputo che era rimasto in Libia, ho smosso mari e monti. Alla fine, dopo molte telefonate, giri infiniti, è comparso sulla Sea Watch. Incredibile! Così i tre si sono riuniti. Sono rimasti a casa mia per un mese, o giù di lì, e in quel periodo abbiamo legato molto, eravamo una sorta di famiglia. Poi sono partiti per la Francia, e oggi vivono lì.

Nel libro racconti anche la routine sulle navi. Si lavora molto?

Moltissimo, si fanno soprattutto tante esercitazioni. Devi essere pronto a ogni evenienza, non si aspetta l’emergenza per imparare ad affrontarla. Eravamo dei soldati, in pratica, con la differenza che noi eravamo lì per portare pace.

Parliamo dei lager libici, adesso.

Molti pur di non tornare in Libia si uccidono. Alcuni quando vengono salvati sono alla loro terza o quarta traversata perché prima erano stati presi dai libici e riportati indietro. E raccontano che amici o famigliari si sono buttati in mare o suicidati, pur di non tornare in Libia.

Cosa succede in questi posti?

Vengono torturati, le torture riprese, i video mandati ai famigliari: se vogliono che smettano, devono pagare. Nel frattempo, sono costretti ai lavori forzati.

Quanti ce ne sono, di questi lager?

Non lo sappiamo, tante sono carceri private: una realtà sommersa. E noi, pur consci di ciò che accade, continuiamo a sovvenzionarli.

C’è sadismo nei carcerieri libici?

Sì, spesso uccidono per divertimento. Avviene una cesura etica per cui sono liberi di esercitare il loro sadismo senza freni. D’altra parte, è ciò che succede in ogni guerra: pensa al Ruanda. Ma al di là del sadismo, le ragioni sono tante. Etiche, religiose, razziali.

I migranti, dopo aver vissuto tutto questo, come fanno ad andare avanti?

Non so. Come convivano con il ricordo delle torture, continuando a chiedersi, tra l’altro, cos’abbiano fatto di male per meritarlo, non lo capisco.

Sulla politica: cambiano i governi, ma niente cambia.

Salvini e Meloni si riempiono la bocca, ma la sinistra fa praticamente lo stesso gioco, solo in silenzio. La destra lo usa per la propaganda, utilizza l’odio come minaccia, la sinistra non lo fa e però, di fatto, non è cambiato niente.

Alcuni alla notizia di un naufragio esultano. Come te lo spieghi?

La gente è così permeata dalla narrazione della destra da non vedere più nulla. Una volta, a cena da amici, un’invitata, saputo che mi ero imbarcata con delle ong, mi ha ricoperta d’insulti: mi ha dato dell’assassina, della trafficante. Una cosa folle.

Cos’hai fatto?

Mi sono alzata e me ne sono andata.

Cosa succede in queste teste?

Faccio fatica a capirlo. È che la narrazione della destra è così ben costruita, le ong, gli accordi con i trafficanti e tutto ciò che ne segue, che crederci è facile. E poi, dobbiamo pure dirlo: di razzismo ce n’è tanto.

Caterina, perché ti sei imbarcata?

Era il 2018. Sostenevo delle Ong e portavo vestiti e cibo a delle associazioni, ma quando sentivo di ciò che stava succedendo, i naufragi, i morti, non potevo far a meno di dirmi che non era abbastanza. Così ho deciso di partire.

Come vai avanti con la tua vita dopo ciò che hai visto?

Dopo un po’ tutto torna normale. E poi la scrittura, le amicizie nate sulle ong mi hanno aiutata.

Ti capita di sognarlo, ciò che hai visto?

Mai. Sogno il mare, ma mai quello che ho visto sulle navi.

Partirai di nuovo?

Sì, mi imbarcherò tra qualche giorno. Sento di doverlo fare.

Caterina, dov’è l’umanità?

Difficile dirlo. Nelle persone che ho conosciuto sulle navi. Nelle persone che aiutano il prossimo. Che non si perdono d’animo. Lì, in loro è l’umanità.

© Riproduzione riservata