Da molti anni la vulgata politica concepisce la “valorizzazione” del patrimonio come “volano dell’economia”. Non è un’eresia, ma a condizione di intendersi su cosa significhi. Per i politici: introiti. Per professionisti dei musei: accessibilità, inclusione, formazione e ricerca per favorire la crescita della società civile. In entrambi i casi c’è creazione di valore, ma sono due visioni diverse. Trovare un punto di caduta è possibile
In occasione del recente G7 sul turismo, Flavio Briatore ha affermato che sarebbe molto meglio per il nostro turismo se l’Italia si dotasse di un museo unico come accade ad esempio in Francia (Louvre) e in Spagna (Prado) invece di avere “robe” sparse per il territorio nazionale. Le parole dell’imprenditor-vedette hanno suscitato molta ilarità soprattutto nella versione riproposta dal comico Crozza nella sua trasmissione televisiva dove spesso, purtroppo, si fa fatica a capire cosa sia stato detto davvero e cosa sia farina del suo sacco.
A ben guardare però, parole non troppo diverse le aveva pronunciate anche il senatore Carlo Calenda durante la sua campagna elettorale per la poltrona di sindaco di Roma, quando aveva auspicato che fosse creato un museo unico per Roma antica accorpando varie collezioni dell’urbe da quelle capitoline a quelle di Palazzo Massimo. Sia nel caso di Briatore che nel caso di Calenda il ragionamento era lo stesso: facilitare il turismo creando un punto di accesso unico per vedere tutto quello che c’è da vedere senza doversi spostare in luoghi diversi. Una specie di supermercato del patrimonio culturale all’insegna del one-stop-shop molto caro al retail di massa di stampo statunitense da Costco a Walmart. Che sia più comodo andare in un posto solo invece che fare mille giri, non ci piove. Il successo dei supermercati dimostra che il consumatore preferisce questa formula. Per me di sicuro è così.
Il vero ruolo dei musei
Ma la vera domanda non è se il museo unico sia più comodo o no (sì, lo è) piuttosto se il ruolo del museo sia solo quello di attrattore turistico. Da molti anni ormai la vulgata politica, a livello sia centrale (ministero) che locale (amministrazioni comunali) concepisce la “valorizzazione” del patrimonio culturale come “volano dell’economia”.
La valorizzazione in termini economici di un quasi public good come un museo non è un’eresia a condizione di intendersi bene su cosa significhi. Per i politici significa marketing territoriale e di conseguenza politico: incremento dei numeri dei visitatori, e degli introiti dai biglietti e dalle concessioni (noleggio di opere d’arte, spazi) e una ricaduta sulle industrie del turismo (bar, alberghi, ristoranti).
Per i professionisti dei musei significa invece accessibilità, inclusione, formazione e ricerca per favorire la crescita della società civile nel lungo periodo. In entrambi i casi il museo crea valore. Nel primo caso monetizza il patrimonio, nel secondo caso fa crescere l’eredità culturale. Sono due visioni molto diverse tra loro che negli ultimi anni sono state oggetto di un confronto tra, da un lato, direttori, curatori, educatori e, dall’altro, politici, amministratori. I primi sono stati quasi sempre perdenti e praticamente ovunque, anche nei luoghi dominati dalla sinistra di governo.
Il marketing appare infatti come la vera essenza della cosiddetta egemonia culturale della sinistra che in questo modo ha sprecato l’opportunità delle importanti riforme che negli ultimi anni erano state avviate per rendere i musei più autonomi nella gestione delle proprie risorse e metter così in campo strategie di gestione mirate a rendere i musei più partecipati mettendo il visitatore al centro dell’offerta culturale museale. Invece troppo spesso l’autonomia di gestione è stata fraintesa come un mezzo per fare dei musei delle agenzie di pubblicità territoriale ad uso politico in una visione provinciale e di corto periodo della cosiddetta valorizzazione.
Le parole di Bob Kennedy
Tornano in mente le parole che Robert Kennedy pronunciò sul significato di benessere pochi mesi prima di essere ucciso, durante la sua sfortunata campagna presidenziale del 1968: «Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico […] Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle […] Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. […] Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri funzionari pubblici [...]
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
Pronunciate anni luce fa, in un mondo tutto diverso, quando ad occidente c’era un faro, ora spento, queste parole dimenticate esprimono concetti che chiunque lavori nella cultura ha fatto suoi da sempre: non lo si fa per i soldi lo si fa per crescere, capire, addolcire la vita degli altri. La cultura serve alla nazione anche come attrattore turistico ma serve di più quando aiuta i propri cittadini. Trovare un punto di caduta tra le due cose è possibile e giusto cercarlo, magari dando ascolto a chi queste cose le fa di mestiere e per passione.
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