La bandiera dell’ELN sventola su Samaniego, chiamata tierra de retazos, ossia “terra di frammenti”, per la sua conformazione territoriale che ricorda una colcha, una coperta fatta a mano formata da vari avanzi di lana che rievocano i terreni di piccole proprietà, uno di fianco all’altro, restituenti colori diversi a seconda delle colture.

Da Pasto a Samaniego, tre ore di viaggio e poco più di cento chilometri di selva mista a piantagioni di mais, fagioli, patate, caffè, frutteti, e di coca e papavero che si distinguono fra la nebbia tropicale e le varie tonalità di verde.

Deysi e Myriam, altre nostre accompagnatrici senza le quali non è possibile muoversi da soli, preparano la cena al nostro arrivo nella casa di mattoni rossi, piena di erbe aromatiche e piante floreali.

L’Espacio educativo para la paz y el buen vivir è un’enorme struttura di canna di bambù gigante, detta guadua, costruita da Oikos per ospitare diversi gradi e cicli scolastici, a pochi metri dalla casa rossa.

Andiamo lì perché ci aspettano donne e uomini che attraverso idee e progetti rendono l’istituto di Samaniego un presidio di speranza. Tra questi, la Consejería de Mujeres Indígenas della riserva El Sande nata per diffondere le pratiche del buen vivir della cosmovisione andina.

L’organo istituzionale è composto da donne indigene e creole, provenienti dai territori della riserva che comprendono le aree rurali e urbane dei municipi di Santacruz, Ricaurte e Samaniego. Ciascuna donna ha un ruolo specifico, tutte insieme cooperano affinché la società civile possa migliorare le proprie condizioni di vita in un contesto di emergenza in cui è il conflitto armato a stabilire le dinamiche dell’esistere.

Le donne si occupano di emancipazione femminile partendo dalle bambine della scuola primaria; lavorano sulla parità di genere coinvolgendo tutti i bambini sin dai primi anni scolastici; valorizzano l’uso di erbe aromatiche e piante medicinali come strumento fondamentale per la cura del corpo e dell’anima; sensibilizzano bambini e adolescenti sulla tutela dell’ambiente e li avviano all’agricoltura ecosostenibile.

Buen vivir

Foto di Stefano Stranges

La locuzione buen vivir o vivir bien, in lingua spagnola, raccoglie le sfumature della cosmovisione indigena nel continente sudamericano, concezione del mondo dei popoli originari rientrata nelle costituzioni della Repubblica dell’Ecuador, nel 2008, e dello Stato Plurinazionale della Bolivia, nel 2009.

L’espressione arriva dalla lingua quechua, allin kawsay, e indica il sistema di conoscenza e di vita basato sulla relazione tra esseri umani e natura, e sull’armonia spazio-temporale dell’esistenza. In lingua aymara, invece, sumaq qamaña, rimanda al concetto di vita armoniosa tra gli esseri umani e tra essi e il mondo naturale, nei confronti del quale vi è un atteggiamento di forte gratitudine.

Rhinna, Jimena, Nuri, María Eugenia, Natali e le altre, ci aspettano per cominciare un rito di accoglienza e di ringraziamento alla Pachamama, la Madre Terra per i nativi. Piove e c’è il sole, e noi siamo mani nelle mani con il palmo rivolto verso l’alto a chiedere energie all’universo per poterle poi ridistribuire intorno a noi, «perché siamo ciò che diamo agli altri», dice Rhinna, la più piccola di tutte, che guida il cerimoniale.

Non parla mai del suo dolore di bambina, Rhinna, di cosa ha provato quando la madre le è stata portata via dai guerriglieri e lei è rimasta senza fiato a piantonare quel corpo esanime in un lago di sangue, ma si apre in un racconto che accompagna il rituale: «Quando ero bambina, ho visto uno degli spiriti della foresta; mi è apparso davanti agli occhi mentre eravamo con mia madre e mio padre nel nostro terreno. Ricordo che al mio richiamare l’attenzione, nessuno di loro riusciva a vederlo tranne me. Era una creatura alta tre metri, con una tonaca molto lunga e un grande sombrero, non parlava, né riuscivo a riconoscere il suo viso e i suoi gesti. Ci aiutò semplicemente a trascinare un idrante nel terreno, e giungemmo poi alla conclusione che si trattava di un essere elementare, uno spirito della natura. Da queste parti lo chiamiamo El Sombrerero.

Allo stesso modo, però, in queste terre esistono gli spiriti maligni: mio nonno mi racconta che una volta, da bambino, con i suoi fratelli raggiunse una cascata e tutti e tre sentirono un grido acuto e prolungato. Si resero conto che era El Gritón. Spaventati, cominciarono a scappare lasciando indietro il fratello più piccolo, che vide questa creatura gigante, dalle fattezze maschili e con le gambe lunghe, correre dietro di lui. I fratelli più grandi arrivarono a casa e chiesero aiuto al padre, il quale prese il fucile, uscì e, vedendo l’essere dirigersi nella sua direzione, sparò. Lo spirito scomparve. Queste storie ci raccontano che esistono spiriti buoni e cattivi, dipende dai luoghi in cui li incontriamo e da come ci comportiamo.

Foto di Stefano Stranges

I nostri antenati ci tramandano le pratiche del buen vivir per entrare in contatto con la Madre Terra, soprattutto quando è il momento di coltivare, di proteggere, di seminare. Se le nostre azioni entrano in armonia con la natura, gli spiriti con cui ci relazioniamo non possono che essere benigni, e di sicuro ci aiuteranno.

Al contrario, se distruggiamo, contaminiamo le acque, danneggiamo ciò che ci è intorno, gli spiriti maligni cercheranno di raggiungerci in ogni modo, è il caso dei violenti terremoti, degli uragani e di tutti gli elementi che hanno origine nel mondo magico.

Saremo sempre noi a pagarne le conseguenze, come già sta accadendo negli ultimi anni, perché quel filo diretto tra uomo e natura quasi non esiste più e la cosiddetta “legge del funzionamento”, che prevede un interscambio tra i due elementi, si è completamente infranta. Noi vogliamo solo benefici dalla Madre Terra senza prenderci cura di lei, e per questo molti degli spiriti elementari che un tempo vivevano in queste foreste hanno deciso di andare via».


Restare vivi è il reportage di un viaggio in Colombia fatto a inizio 2022 da Valentina Barile, giornalista italiana inviata da Radio Bullets, per documentare la missione umanitaria della ONG Oikos. Valentina ha attraversato una lingua di terra conosciuta come “corridoio della droga”, ha raccolto le testimonianze delle persone che vivono in quelle comunità inaccessibili, tra narcotraffico e conflitto armato, e che promuovono pratiche di resistenza, emancipazione ed ecosostenibilità. Il libro è stato pubblicato a marzo 2024, tra i titoli d'esordio della casa editrice Wudz, con una premessa di Aleida Guevara March.

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