Secondo l'analisi di World Weather Attribution le alluvioni di Kenya e Tanzania sono state rese due volte più probabili dal riscaldamento globale causato dalle emissioni di gas serra. Così la crisi climatica si abbatte sui paesi che meno hanno contribuito a causarla, presentando nello stesso momento il conto della povertà, del mancato sviluppo e di quello incontrollato del nord globale
Tutto quello che era sulla riva, case negozi persone, è stato spazzato via dall’acqua. Un mese dopo il fiume sembra ancora l’epicentro di un cratere dove è caduta una bomba. È come la scena di una guerra, invece è stata l’onda di piena di uno degli affluenti del fiume Nairobi a portare questa devastazione.
Siamo a Mathare, nell’area urbana della capitale del Kenya, uno degli slum più grandi dell’Africa orientale. Qui l’ultima stagione delle piogge ha avuto proporzioni catastrofiche, in Kenya e Tanzania ha fatto 294 e 161 morti, più centinaia di migliaia di sfollati, quartieri e villaggi devastati, raccolti saltati, infrastrutture compromesse.
È stato solo uno degli eventi climatici estremi della prima parte del 2024, alluvioni di queste dimensioni hanno colpito anche il Rio Grande do Sul, in Brasile, la provincia del Guangdong, in Cina, quella di Ghor, in Afghanistan, disastri che nella nostra percezione distratta sono ridotti a brevi di cronaca, come se la nostra mente non riuscisse ancora a concepire il disegno più generale di un pianeta in cui episodi come questi diventano sempre più intensi e più frequenti.
La metafora del dado
Secondo l’analisi di World Weather Attribution (la principale istituzione scientifica per il collegamento causale di singoli eventi estremi all’emergenza climatica), le alluvioni di Kenya e Tanzania sono state rese due volte più probabili dal riscaldamento globale causato dalle emissioni di gas serra.
Gli scienziati usano spesso la metafora del dado: un evento estremo di queste proporzioni ha una certa probabilità di verificarsi. Più aumentiamo la concentrazione di CO2 in atmosfera, più si riduce il tempo di ritorno di piogge così violente.
È come se raddoppiassimo il valore più alto che può uscire dal dado ogni volta che lo tiriamo. I dati della scienza coincidono con la memoria degli esseri umani. Mary Mbete ha 72 anni, vive qui dal 1970, ha cinque figli, sedici nipoti, aveva una casa e un piccolo negozio di cibo sulla riva, è stata trasportata in braccio dai vicini mentre la piena saliva, tutto il resto è andato perso: «Non avevo mai visto niente del genere, non era mai successo niente così, non c’è mai stata tutta quell’acqua, il fiume è sempre stato un rivolo, non ci aveva mai fatto paura».
Il conto della povertà
Sempre per il World Weather Attribution, la disastrosa urbanizzazione di Nairobi e lo stato precario delle infrastrutture hanno fatto il resto: il rischio è la combinazione di evento estremo più estrema vulnerabilità.
È così che la crisi climatica si abbatte sui paesi che meno hanno contribuito a causarla, presentando nello stesso momento il conto della povertà, del mancato sviluppo e di quello incontrollato del nord globale.
In Kenya le alluvioni di quest’anno hanno colpito in tutto 43 contee su 47, hanno praticamente sommerso il paese, fatto saltare i raccolti e compromesso migliaia di fonti idriche (2.458 secondo i dati della Croce rossa keniana). In nessun altro posto hanno fatto i danni di Mathare. In questo slum di Nairobi vivono 500mila persone, non arriva elettricità, non c’è raccolta rifiuti e non ci sono fogne, si cucina solo su fuochi aperti, di notte è territorio delle gang, la polizia non ci entra nemmeno per sbaglio, e i soccorsi sono stati fatti principalmente dalla Croce rossa, che ha costruito in poche ore un campo per gli sfollati.
«Insediamenti informali»
Kevin Ochieng ci accompagna mostrandoci la via per non inciampare tra i detriti e le buche, sul suolo c’è l’archeologia di decenni di progresso, che qui è arrivato solo sotto forma di scarti: ci sono materassi abbandonati, zaini squarciati, resti di scarpe e vestiti, tantissima plastica, escrementi, si mescolano a ogni passo l’organico e l’inorganico.
«Avevo aperto una palestra per insegnare la boxe ai ragazzini, ma è stato tutto spazzato via dall’acqua, è salita in una notte e la mattina dopo ogni progetto che avevo fatto non c’era più. Pensavamo che queste case ce le avrebbe portate via il governo, prima o poi, non avevamo mai pensato che sarebbe stato il fiume».
Nella burocrazia della cooperazione, questi slum si chiamano «insediamenti informali», agglomerati di case costruite illegalmente su suolo pubblico, frutto della stratificazione delle ondate di migrazioni interne per venire a Nairobi a fare i lavori base: autisti, muratori, domestici, facchini.
Meno di trenta metri
Su alcuni muri c’è un numero scritto con la vernice: 30. È un modo per segnalare il diritto a rimanere qui, nonostante i pericoli. Dopo l’alluvione, il governo del Kenya ha deciso che le costruzioni lungo i fiumi, a meno di trenta metri dall’acqua, devono essere distrutte e le persone si dovranno spostare. Chi sta oltre quella linea può rimanere.
È una mossa giusta, perché con questo clima le rive sono troppo pericolose, è ragionevole pensare che potrebbe succedere di nuovo, e succedere con questa violenza, tra tre, cinque, dieci anni. Mancano però le alternative, questa comunità per l’80 per cento vive di economia informale, qui crisi climatica e povertà sono due facce della stessa disperazione.
Si può scappare dal fiume, ma per andare dove? Spiega Ochieng: «Ci offrono soldi che a Nairobi bastano per vivere un mese, i nuovi edifici saranno pronti fra anni e non basteranno per tutti, noi che facciamo nel frattempo?»
In questa domanda c’è la misura del gap tra la scala dei problemi da affrontare e le risorse che hanno paesi come il Kenya per farlo. La distruzione a Mathare è un carotaggio di quello che dovrebbe essere coperto dal nuovo fondo danni e perdite creato alle conferenze dell’Onu sul clima: secondo le stime più citate la somma dei danni da clima come quelli di Kenya e Tanzania sarà ogni anno tra 290 e 580 miliardi di dollari già nel 2030, potrebbe arrivare a 1.016 miliardi entro il 2040 e a 1.741 nel 2050. Per dirla meglio, con un dato del World Economic Forum: la crisi climatica negli ultimi vent’anni è già costata al mondo 16 milioni di dollari ogni ora.
Rischio sanitario
Dar es Salaam è la città più grande della Tanzania e ne è stata a lungo la capitale, prima dello spostamento nella più piccola e periferica Dodoma. Qui la stessa stagione delle piogge non ha fatto i danni di Nairobi, il grosso della distruzione nel paese (con oltre 100mila sfollati) è stato nella più ampia regione di Pwani, però la città è un buon campione degli effetti a lungo termine di un’inondazione dentro un’area urbana vulnerabile in Africa.
Nel quartiere di Kinondoni ci sono solo case basse, l’unico edificio imponente è quello di un tribunale distrettuale. L’alluvione ha allagato tutto, non ha fatto vittime, ma ha reso l’area un terreno anfibio. Come spiega Aziza Rajabu, che qui vive da sempre, «il primo pensiero, quando abbiamo visto salire l’acqua, è stato per i bambini. Non per l’acqua in sé, ma per gli insetti, le malattie». Secondo l’Oms, le alluvioni lampo in Africa occidentale sono anche un rischio sanitario, c’è una letteratura scientifica consolidata sul legame tra eventi meteo estremi e l’aumento dei rischi di focolai di malaria, colera, febbre gialla, meningiti.
Le mamme di Dar es Salaam lo sanno, e così hanno portato i bambini lontano dall’acqua, amici, parenti, rifugi temporanei, perché anche venti o trenta centimetri di acqua che ristagna per una settimana possono significare malattia e morte.
L’altra emergenza alluvionale a Kinondoni è la spazzatura. Lo racconta Regnard Titus Mkwese, che lavora per la ong italiana WeWorld a Dar es Salaam. Pronuncia una parola che con la stagione delle piogge diventa sempre più un incubo: takataka, “spazzatura” in swahili.
«Le discariche sono a cielo aperto, senza protezione, vengono svuotate solo quando capita». Ne mostra una che sembra una grande vasca piena di rifiuti di ogni tipo: quando sale l’acqua, il takataka invade i quartieri, galleggia sulle strade, moltiplicando i rischi sanitari.
«L’acqua non ci ha mai fatto così tanta paura», spiega Aziza. È quello che World Weather Attribution chiama «paradosso dell’Africa orientale», comune anche ad altre aree, ma qui particolarmente acuto: l’acqua fa paura sia quando non c’è (prima di queste alluvioni, erano saltate cinque stagioni delle piogge consecutive) sia quando c’è.
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