«Sapevamo che era un grande capo dell’Einaudi, mai gli avrei mandato un libro», racconta Piersanti. Ma da supplente «percepivo la fantasia dei ragazzi che he si accendevano con il Barone rampante»
Italo Calvino era davvero un autore così politicamente corretto come sostiene Ermanno Cavazzoni nella prima puntata di questa frivola inchiesta? («Nella nostra storia letteraria», diceva Cavazzoni, «ci sono due filoni paralleli: uno comico, buffo e irregolare che passa attraverso Pinocchio di Collodi, e un altro che passa da Cuore di Edmondo De Amicis. Calvino è di quest’ultima linea: so che dirlo è impopolare, però è un autore politically correttissimo; non c’è una parolaccia, l’italiano è bellissimo, esemplare, da perfetto tema in classe; giustamente è stato adottato nelle scuole come modello di scrittura perfetta, ben fatta»).
Claudio Piersanti, davanti a un piatto di polpettone e caponata, riflette su queste parole: «Ricordo che io, da giovane anarcoide quale ero, diffidavo politicamente di Calvino perché avevo visto una sua fotografia in cui faceva il picchetto d’onore ai funerali di Togliatti. Evidentemente, la mia era una posizione che non c’entrava niente con la letteratura. Vorrei però dire un’altra cosa…».
Un attimo, prima presentiamolo, Piersanti: scrittore e sceneggiatore abruzzese-marchigiano-bolognese-veneziano («tecnicamente sono un nomade, non ho un posto dove tornare»), laureato in filosofia a Bologna con Luciano Anceschi, scrisse anni fa il bellissimo Luisa e il silenzio (Premio Viareggio), l’anno scorso era candidato allo Strega con Quel maledetto Vronskij, e ora è tornato in libreria con Ogni rancore è spento, entrambi Rizzoli.
Autore della generazione di Tondelli, Palandri, Lidia Ravera eccetera, figlio di un carabiniere, anarchico a Parigi quindicenne («dormivo su una pila di manifesti e mangiavo solo gulasch»), ha fatto molti mestieri, ha scritto molti racconti e oggi vive in un paesotto delle Marche.
Un uomo di potere
«Volevi dire un’altra cosa», riprendo.
«Sì, che mi era capitato, anni fa, di parlare di Edmondo De Amicis con lo scrittore Abraham B. Yehoshua. In Israele, da ragazzo, anche lui era rimasto colpito dalla libertà di movimento narrativo di Cuore, la modernità della costruzione, narrare per lezioni: una modernità indiscutibile. Le avanguardie accademiche italiane che lo detestavano si sbagliavano completamente. Certo, ci sono momenti di commozione molto cercata, sottolineata, è un libro con una sua retorica voluta. Ma se parliamo di politicamente corretto, be’, quello di allora era molto diverso da quello di oggi: formalmente il libro Cuore è più rivoluzionario e moderno de Il nome della rosa, che è un giallo, mentre quello di De Amicis è un genere letterario a sé, è un’invenzione narrativa».
«Ma a Bologna, negli anni Settanta, i ventenni come voi cosa leggevano?»
«La cultura letteraria negli anni Settanta era bassissima. Nelle case dei miei amici bolognesi, un po’ movimentisti, tra canne e molotov – dove anche io mi associavo a volte – questi leggevano L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, i grandi linguisti, Ferdinand de Saussure, gli scritti di Lacan, e sulle facce capivi che non c’avevano capito un cazzo! Gente del servizio d’ordine che leggeva Lacan, con la chiave inglese in tasca! Non c’erano libri di letteratura.
Forse un’eccezione fu La storia di Elsa Morante, esplosioni però tutto sommato un po’ conformiste. Invece imperava la mitologia del passato, cioè i poeti citati dai filosofi e dai critici che loro leggevano: vale a dire Rimbaud. O il dadaismo, rivissuto in una forma rivoluzionaria, secondo loro. Anche io leggevo il dada, ho letto tutti i surrealisti, a vent’anni conoscevo L’Amour fou di Breton in francese. Il letterato puro veniva considerato morto. Anche editorialmente».
«In che senso?».
«Quando io e Pier Vittorio Tondelli entriamo alla Feltrinelli aspettiamo tre anni abbondanti prima di uscire in libreria. Lui come editor aveva Aldo Tagliaferri, io Antonio Porta. Non sapevano come collocarci. Poi uscì lo slogan dei “nuovi scrittori”. Antonio era una persona molto equilibrata. Era del Gruppo 63, a me ufficialmente avverso, ma non lui, gentilissimo, paziente. Voleva cambiare il titolo, che era Casa di nessuno, gli sembrava banale. Propose un titolo che era la contrazione di quello, io scuotevo la testa. Mi mise una mano sulla spalla: “Vedi Claudio, arriva il momento che il libro è finito, ora tu non ci pensare più, lascia stare questo cazzo di titolo. Chiuso il discorso, va bene? Ciao!”».
«Calvino come lo vedevate?».
«Per noi giovani Calvino era un uomo di potere. Io mai avrei osato mandare un libro a Calvino. Era visto come irraggiungibile. Sapevamo che era un grande capo dell’Einaudi. Ma io quando facevo le supplenze in quegli anni, agli studenti davo da leggere i suoi racconti e la Trilogia dei nostri antenati. Percepivo l’interesse e la fantasia dei ragazzi che si accendevano con il Barone rampante e il Visconte dimezzato; li colpiva moltissimo. Io l’ho anche riscoperto, poi. Trovo per altro che chiamare questi romanzi fiabe sia riduttivo.
Le cose sui partigiani sono bellissime, a me piaceva parecchio Il sentiero dei nidi di ragno. Non ho mai cambiato idea sul fatto che fosse uno scrittore importante. Calvino era nel Pci, anche se a un certo punto se ne va, ma noi lo abbiamo sempre collocato lì. Però certo non scriveva da marxista-leninista, era uno scrittore libero molto bravo, aveva uno stile bellissimo, soprattutto nelle cose brevi, che a me piacciono particolarmente. L’ho usato per avvicinare i giovani alla lettura. La giornata di uno scrutatore è di una bellezza sconvolgente. È veramente molto bello. Forse è il suo più bello».
La seconda fase
«Si dice spesso della seconda fase di Calvino, quella delle Città invisibili, del Castello dei destini incrociati… Uno scrittore diverso da prima».
«Della fase finale credo che la cosa più interessante siano le Lezioni americane, che io lessi con grande interesse. Devo dire che mi è interessata meno la parte narrativa, che secondo me risentiva dell’influenza dei francesi sotto l’aspetto formale. Non mi era piaciuto Se una notte d’inverno un viaggiatore, mi era parso un esercizio formale, un gioco. In Feltrinelli si sarebbero tutti inginocchiati. Aldo Tagliaferri lo paragonava a Beckett, e francamente non capisco perché – d’altra parte lui paragonava tutti a Beckett… Qualche libro così così ce l’ha anche Calvino, ma nel contesto di un grande valore letterario, che magari ce l’avessi io! Palomar mi era piaciuto molto».
«Perché avevi delle riserve su Se una notte d’inverno un viaggiatore?».
«Perché mi era sembrato una cosa scritta da uno molto bravo, che però non mi coinvolgeva. Sai, il clima culturale di quegli anni era desolante: ti costringevano a una polarizzazione forzata, o eri pro o eri contro, si parlava di letteratura calda e letteratura fredda, teoricamente capeggiata da Calvino. Quelli scelti da Calvino erano letteratura fredda ma più bravi degli altri, che invece erano retrò.
Tra i primi c’era Daniele Del Giudice, che ho sempre letto con grande interesse, perché anche io non avevo un rapporto qualunquista con la scienza: avevo studiato epistemologia, ho lavorato in aziende di ricerca scientifica. Daniele era attirato dai grandi teorici della fisica e io da Gerald Edelman e le sue teorie straordinarie che annunciavano l’intelligenza artificiale con venti trenta anni di anticipo».
Dalla narrativa alla riflessione
«C’è chi ha detto che Calvino, alla fine, era più interessato alla riflessione teorica, a una narrativa di riflessione, tu cosa pensi?».
«È vero, e la testimonianza si chiama appunto Lezioni americane: lì c’è un flusso energetico che non è inferiore a quello che uno dedica a un romanzo impegnativo, contiene un pezzo di vita di Calvino. In quegli anni a Bologna un nostro maestro era Gianni Celati, il quale nonostante fosse più vecchio di noi era un ragazzo come noi, passava le serate con noi. E ricordo che parlava continuamente al telefono con Calvino. Erano molto intimi. Si chiamavano sempre, e parlavano per delle ore. Li ho sentiti anche a casa mia, Celati gli parlava dal mio telefono. Era un rapporto di ammirazione reciproca. Celati non era prono, gli selezionava le letture».
«Cosa si dicevano Calvino e Celati dal tuo telefono?».
«Parlavano di grandi saggi, c’era un fermento saggistico in tutti i campi, lo strutturalismo e le sue varianti, la semiotica, la nuova storiografia, la rilettura di Chomsky. Loro erano immersi in questo dibattito, in queste letture. Ogni tanto succede anche a me: si ha bisogno di riflettere su quello che si sta facendo, per cercare di capire chi diavolo sei, cosa ci stai a fare dentro a un mondo, una società, cosa significa uno scrittore, cosa dici agli altri».
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