Una narratrice in viaggio, la leggenda di Katharina Thaler sulle Dolomiti e un percorso a piedi in montagna. Tre storie diverse, tre libri italiani che parlano di quello che c’è dietro l’idea e la pratica di mettersi in cammino
«Chi ha bisogno cammina, dice un detto popolare». E camminare è l’atto lento che porta lontano dalle strade più battute, che restituisce cura. Molto spesso, «prendere le strade traverse equivale», come scriveva David Le Breton in un saggio di ormai qualche anno fa (Camminare, Edizioni dei cammini, 2015), a «lasciarsi alle spalle un mondo fatto di competizione, di disprezzo, di disimpegno, di velocità, di comunicazione, a favore di un mondo dell’amicizia, della parola, della solidarietà».
Tornare
Camminare è tornare: tornare a un sistema di valori – se è un camminare autentico, se è mosso da un sentire sincero – perduto od offuscato, tornare a un tempo calibrato su parametri nuovi, ma antichi, tornare – anche – alle radici.
Lo fa Francesca Camilla D’Amico, raccontando Altritudini (Ediciclo, 2024), incontrando persone, imparando ad ascoltare, a stare un passo di fianco a quello che la circonda, a guardarlo con rispetto («Perché se ami veramente i selvatici e se comprendi quanto la nostra presenza sia impattante per un animale a rischio d’estinzione come l’orso marsicano, ti basta sapere che esiste»).
D’Amico impara dai puri («I puri non sono santi, sono persone che hanno un grande rispetto per la vita, la onorano con generosità»), risponde a un bisogno antico, alla pulsione vitale che la riporta al punto di partenza, racconta – è raccontare il verbo chiave di certe esistenze – la sua terra magica e aspra, la sente risuonare sotto i piedi, capisce che vivere di più è assecondare la sua passione per il teatro, ma è anche legarla alla vita: senza steccati, senza recinzioni, senza le definizioni sbrigative di quelli che vengono presi da ansie classificatorie di esperienze banali («coloro che vengono in montagna con le ciabatte o con le Hogan e domandano “dov’è il parco nazionale?” immaginandolo come un posto recintato, una sorta di zoo»), quelli che si incontrano in tutti i posti, anche nei centri storici dei borghi, mentre camminano per i vicoli e chiedono ai residenti: scusi, dov’è il centro storico? Non si rendono conto che ci sono dentro.
Non è questione di essere o sentirsi lupi, non è questione d’essere selvatici, è senz’altro questione di essere umani, di capire che il mondo – in nessun luogo – è palcoscenico: è avvicinarsi all’altro – qualsiasi altro – e alla sua vita, con l’attenzione che merita: alla caparbietà, talvolta, di chi non si scoraggia di fronte a qualche passo in più da fare nelle proprie giornate («Vivere al margine di quello che oggi è considerato il centro mi ha portata a tastare con mano il disagio, unito alla caparbietà, di chi sceglie di costruire qualcosa lì»).
I passi delle nostre storie
Tornare a cercare qualcosa nella gente che camminava scalza sulla neve, senza ammalarsi mai; scavare, andare a grattare nei misteri e nelle storie che hanno fatto le ossa e le paure inconsce che ci si porta dentro.
Percorrere Il sentiero selvatico (Feltrinelli, 2024) come fa Tina, la protagonista dell’ultimo libro di Matteo Righetto: Tina è mezza invenzione, mezza vita misteriosa di Katharina Thaler, ultima lupa delle Dolomiti («Morì il 29 giugno del 1991, la vecchia Katharina Thaler, ma ancora oggi c’è chi si dice convinto di averla avvistata per boschi anche negli anni successivi a tale data, incrociandola per qualche secondo, o chi sostiene di averla vista da lontano, vagare sulle creste del Pore, ad Antersass, sul Megon, a Livinai e sopra Larcionèi»).
La storia di Righetto è una storia in scarponi, squisitamente ladina e universalmente di tutte le montagne, che ripercorre e indaga questo personaggio, cerca di capirne i perché, riporta a un’immagine di corrispondenza tra uomo e natura («Per essere felice e ritrovare sé stessa aveva bisogno di sentire il vento che le soffiava sul naso e non vedere che il cielo sopra di sé»), a un sentiero selvatico che è una possibilità alternativa.
Tina indica una strada rispettosa, sacra, profonda; aiuta a saper riconoscere le vere streghe e non quelle presunte («è una strìa!»), a riflettere sulla faciloneria del giudizio («Su di sé aveva mille occhi e mille chiacchiere a vuoto, quelle dei paesani, mai così freddi e distaccati come in quel momento. Cercò di dare un nome a quel disagio.
Si disse che era come sentirsi un animale selvatico, una preda») e sull’evidenza della Storia («Chi nega lo spirito della terra si copre di ridicolo. Non vi è bastata la guerra per capire qualcosa? Non vi è bastato quello che abbiamo vissuto in questi anni, non vi è bastato perdere i vostri cari? Dopo tutto questo siete ancora qui a credere che il problema siano i lupi sui monti?»).
Lo fa raccontando una vita insolita, ascoltando lo spirito dei luoghi («Mamma, il barbagianni lo hai sentito?»), riportando al centro di tutto la sacralità della natura («Tornò al torrente, si rinfrescò il viso, si lavò le mani e cominciò a scendere verso il paese con la sensazione di abbandonare un posto sicuro per rituffarsi nel pericolo»), nella ricerca e nel raggiungimento del proprio posto («Il richiamo che sentivi era qualcosa di irrinunciabile e vecchio come la Terra, perché non è come nasci ma come vivi e come muori che rivela a quale popolo appartieni»).
LamontagnaèsempreinpacePosti sicuri
«Non esiste un posto al mondo in cui possa trovare tutto ciò di cui ho bisogno, non è ai posti che manca qualcosa, quelli mancanti siamo noi», scrive Maurizio Carucci nel suo Non esiste un posto al mondo (HarperCollins, 2024), lo scrive alla fine di un viaggio («Noi, sempre a piedi, con uno zainetto sulle spalle. Lentissimi.
Come facessimo parte di un popolo con altri costumi, che parla un’altra lingua») e forse all’inizio di un altro, lo scrive dopo aver camminato a lungo e aver misurato la terra con occhi e piedi nuovi, in un modo che forse aveva sempre avuto dentro, essendo sempre stato attento e abituato a stare ai margini («Verso la metà di giugno io, mia sorella e i miei genitori ci trasferivamo a Carro, un paesino rurale, a mezz’ora di curve dalla turistica e marinara Sestri Levante»), sempre un attimo prima di, sempre in bilico («Eravamo una band di crinale, in bilico tra il cattivo gusto e l’avanguardia. Più spesso di cattivo gusto»), fino a cambiare vita, fino a trovare il posto giusto («Per le mani avevo una vita sconosciuta, disadorna, capace di farmi sentire nel posto giusto»), fino a fare di un mostro (il Barbàn) un prodigio, uno spirito guida, una casa, un antidoto («Da una parte ci piaceva come suonava, dall’altra ci eravamo immaginati questo mostro atipico che, terrorizzato dagli esseri umani – come dargli torto – vagava per questi ruderi, spaventando tutti i possibili avventori»).
Ci sono pagine e parole di passi lenti, di ritorni, di spinte («il nostro essere a disagio è la nostra rivoluzione») che si parlano a voce bassa e indicano un modo e un mondo altro, un esistere che guarda la sabbia nella clessidra e – a un certo punto – decide di interrompere il tempo, di frenare la frenesia, di guardarsi intorno, di guardare gli altri.
«Bisogna camminare, riscoprire la lentezza proprio nel mondo dell’eccesso di informazioni e della velocità. Ismaele si pone quella domanda perché, dentro di sé, conosce bene la risposta: non si fermerà, si terrà i suoi dubbi e continuerà a viaggiare», diceva Ryszard Kapuściński, e aveva ragione.
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