Il dibattito pubblico italiano si appropria delle complesse questioni americane, reagendo scompostamente. Ma le notizie sul mondo woke Usa arrivano distorte. E nel nostro paese non c’è la dittatura del politically correct
Negli ultimi otto anni ho vissuto negli Stati Uniti e da lì ho seguito il modo in cui in Italia sono arrivate e sono state trattate le questioni legate al movimento Me Too e alla cancel culture, le polemiche riguardanti il politically correct e la censura, la cultural appropriation e in generale tutti i fenomeni legati alla cosiddetta ondata di wokismo, ormai una parola denigratoria per designare i cascami censòri dei movimenti degli attivisti woke (svegli, in allerta) ipersensibili alle ingiustizie sociali e a ogni manifestazione portatrice di pregiudizi razziali o discriminatori nei confronti delle minoranze.
Negli Stati Uniti la questione è complessa, anche perché legata a problemi storici e sociopolitici di natura molto diversa dai nostri. In tempi recenti, diciamo dall’elezione di Trump in poi, i movimenti per i diritti civili hanno creato una forte pressione politica con un’importanza sempre crescente nel discorso pubblico ed è capitato che nell’infuriare delle battaglie ci siano stati casi di “punizioni mediatiche” frettolose e sproporzionate ai danni di persone, ma anche di libri, film o canzoni, che esprimessero posizioni sessiste, razziste o omofobe.
Distorsioni italiane
In questi stessi anni mi ha sempre molto colpito il modo in cui queste questioni sono arrivate, sono state elaborate e che tipo di reazione hanno suscitato in Italia. Notizie ipersemplificate e raccontate in maniera distorta (Disney ha cancellato le favole), reazioni esagerate, conclusioni apocalittiche sul dove siamo arrivati (l’adagio «non si può più dire niente») e su dove andremo a finire («buttano giù la statua di Colombo, tra poco toccherà al Colosseo»).
E se questo tipo di reazione era piuttosto prevedibile da destra, visto che per loro non c’è di meglio che paventare la cosiddetta dittatura del politicamente corretto per gettare discredito sui movimenti in seno a cui nascono le rivendicazioni a difesa di chi viene da sempre discriminato, più preoccupante è quando il fuoco viene aperto da sinistra o dal mondo degli intellettuali, che inciampano nella stessa esagerata preoccupazione per fenomeni importati da oltreoceano.
In due saggi recenti di importanti scrittori e docenti universitari italiani, vengono riportati, malamente, fatti avvenuti negli Stati Uniti come esemplari del degrado intellettuale che ci sta travolgendo: nelle prime pagine del saggio Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli, 2021) Walter Siti fa partire la sua interessante riflessione sulla libertà d’espressione, scrivendo che in America Disney ha tolto gli Aristogatti dal catalogo dei film per bambini perché nella pellicola sono stati riscontrati stereotipi razzisti. Sarebbe un bell’esempio di assurdità censoria: peccato che non sia così. Il film è disponibile e anzi consigliato per tutte le età. È stato aggiunto un rapido disclaimer, come prima di ogni contenuto video distribuito da grandi piattaforme.
Nel recentissimo Chi ha paura dei Greci e dei Romani? Dialogo e “cancel culture” (Einaudi, 2023), il professor Maurizio Bettini si schiera in difesa dei classici riportando “allarmanti” fatti americani, tra cui quello di un piccolo liceo del Massachussets in cui avrebbero tolto dal curriculum la lettura dell’Odissea perché sessista. Duole constatare che questo fatto marginale e del tutto insignificante, gonfiato ad arte dalla stampa conservatrice americana che ha trasformato un cambio di programma in censura, non ha nessuna relazione con la nostra cultura, la nostra scuola (il liceo classico in Usa non esiste), il nostro rapporto con i classici greci e latini che nelle scuole americane sono tutt’altro che parte dei programmi.
Dispiace che anche chi dovrebbe avere a cuore l’accuratezza dei fatti che vengono citati per portare avanti istanze necessarie contro la censura e la superficialità di chi tende ad azzerare i contesti, cada nell’errore di radicalizzare il discorso basandosi su eventi marginali o storie distorte, avvenute a migliaia di chilometri di distanza da noi e di cui non si ha avuto neanche la cura di verificare la fondatezza.
La dittatura che non c’è
In Italia, vorrei rassicurare tutti in generale e poi in particolare il generale Vannacci – e il successo del suo libro ne è una prova – non c’è nessuna dittatura del politicamente corretto, né censura su Omero (non c’è neanche in America), il pensiero dominante è ancora quello più conservatore, non ci sono minoranze che hanno conquistato posizioni egemoniche e dettano legge a discapito della maggioranza, né palesi discriminazioni nei confronti di quest’ultima (nessuna minaccia alle famiglie tradizionali), i fatti confermano che il sistema patriarcale, anche se messo in discussione, è ancora integro, il potere socioeconomico e politico è ancora largamente appannaggio di un genere solo.
Non mi risulta neanche che la cancel culture in questo paese abbia mai veramente colpito nessuno che per aver espresso un’idea controversa, abbia perso reputazione, il posto di lavoro o un privilegio garantito.
A differenza degli Stati Uniti non ci sono stati uomini con la carriera rovinata per via del Me Too (c’è stato un unico caso che ha colpito un regista, poi ampiamente riabilitato), non ci sono stati giornalisti licenziati per aver scritto articoli apertamente razzisti, omofobi o misogini (anzi, ci sono giornali che con l’idea di dire verità scomode e provocatorie ci hanno costruito il loro pubblico), né professori che hanno perso la cattedra per aver scelto di insegnare certi autori anziché altri (se proprio vogliamo parlare di cancellazione, in Italia dovremmo fare prima una rapida analisi su come siano state sistematicamente cancellate le donne dai libri di storia e letteratura).
Eppure sono anni che circolano risposte sproporzionate a problemi importati che da noi sembrano non esistere o avere delle dimensioni decisamente sovrastimate (ricordate quanto si discusse del bacio della Bella addormentata definito da una blogger americana “non consensuale”?).
Appropriazione culturale
Negli ultimi giorni si è pure parlato molto – di nuovo a sproposito – anche della cultural appropriation, quando l’attore Pierfrancesco Favino alla mostra del cinema di Venezia, ha citato il concetto in una dichiarazione a proposito del film su Enzo Ferrari, prodotto e interpretato solo da americani.
Al di là della assurda ma anche divertente pletora di battute che questa infelice uscita si è tirata dietro sui social («E allora Burt Lancaster nel Gattopardo? E allora perché Buscetta l’ha fatto Favino e non un siciliano?”» «e allora un serial killer lo può interpretare solo un serial killer?»), una riflessione sul vero significato dell’espressione “appropriazione culturale” forse merita di essere fatta.
Si parla di cultural appropriation non quando qualcuno racconta o interpreta una storia che non appartiene alla sua cultura o ancora peggio alla sua esperienza personale (fosse così in letteratura esisterebbe solo l’autofiction e il mestiere stesso dell’attore sarebbe messo in discussone), ma quando una qualsiasi creazione intellettuale nata in un contesto discriminato venga fagocitata dal sistema dominante e sfruttata economicamente da quest’ultimo a scapito del primo.
Gli esempi più eclatanti sono quelli della musica, l’industria discografica dominata dai bianchi che negli anni della discriminazione razziale sfrutta il rythm & blues creato nelle comunità black, Elvis che diventa il re del rock&roll mentre “colleghi” neri come Little Richard e Chuck Berry rimangono al rango di valvassori, la canzone Mbube (The Lion sleeps Tonight) che è fruttata all’industria discografica americana milioni di dollari, mentre il suo creatore, il musicista sudafricano Solomon Linda, che aveva registrato questo canto di caccia degli zulu, ha vissuto ed è morto in povertà sotto apartheid.
Il caso citato da Favino quindi non ricade nel novero dell’appropriazione culturale: gli italiani non sono una minoranza oppressa, e per quanto l’industria cinematografica nazionale sia molto meno forte e ricca di quella di Hollywood, i registi e gli attori italiani non vengono sistematicamente discriminati e nessuno ha impedito a un produttore italiano di fare un film su Enzo Ferrari e farlo interpretare, che so, da Luigi Lo Cascio. Hollywood è solo arrivata prima su una storia che era a disposizione di tutti, come quella della famiglia Gucci.
Sudditanza culturale
È bizzarro come le nostre paure della censura, della correttezza, dell’appropriazione indebita finiscano per essere anch’esse paradossalmente delle forme di sudditanza culturale, visto che importiamo dagli Stati Uniti problemi e fenomeni che qui non ci sono (o non ancora), non li sappiamo neanche leggere correttamente, ma siamo bravissimi a creare delle reazioni, a volte iperboliche quando non scomposte, al grido di «torneremo al Medioevo!» dimenticando che una censura feroce ce l’abbiamo avuta per tutti gli anni del fascismo mentre oggi un Vannacci può fare della sua collezione di idee razziste e omofobe il libro più venduto dell’anno.
Il terrore del nuovo che rischia di essere più autoritario del vecchio in Italia non ha una grande ragion d’essere: il vecchio è vivo, vegeto e spadroneggia ancora. Ma si capisce che sta tremando di fronte all’ipotesi di perdere il privilegio di stare in poltrona, magari con il microfono acceso, seduto comodamente dalla parte del torto.
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