- Quando si dice di voler essere sé stessi la frase va interpretata soprattutto come un rifiuto dei pregiudizi e una rivendicazione del diritto a non essere discriminati
- La politica tende a categorizzare le infinite diversità per renderle nominabili secondo la legge, la letteratura si muove in senso contrario: rifiuta le categorie perché troppo simili agli stereotipi
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Se si domanda a un giovane, uno di quelli ancora sospesi tra studio e lavoro, che cosa vuol essere nella vita, non è raro sentirsi rispondere «voglio soprattutto essere libero», e qualche volta aggiungono, i più fluidi e militanti, «essere me stesso senza venir giudicato».
Essere sé stessi è, letteralmente, inevitabile («sii te stesso», diceva Wilde, «tutti gli altri sono già presi»); quindi la frase va interpretata come «io rifiuto i pregiudizi e rivendico il diritto di non essere discriminato, lotto per una società accogliente e inclusiva». I diritti non possono essere una licenza individuale, o sono collettivi o non sono; nell’odierna battaglia culturale per i diritti civili, contro le forme sistemiche di esclusione e di ingiustizia, in prima fila ci stanno le categorie che finora non hanno avuto un riconoscimento paritario – dunque la rivendicazione slitta dalla diversità individuale verso la politica identitaria. In questa tensione tra desiderio privato e riconoscimento pubblico del desiderio si consuma un passaggio delicato: all’individuo desiderante si chiede di indossare un tesserino, dichiarando a che tribù appartiene.
Individui e identificazione
Un trentottenne amico scrittore mi diceva l’altro giorno che i gay (bianchi) palestrati che frequentano le feste queer cominciano a dare fastidio («occupano a torso nudo tutto lo spazio della pista, sono troppo maschi»); dentro la “g” della sigla Lgbt+ si stanno operando dei distinguo.
Il desiderio individuale, se fissato da vicino, mette in discussione anche il tema della libertà: non siamo padroni dei nostri desideri più di quanto siamo padroni del nostro inconscio, soprattutto se il desiderio prende la forma dell’ossessione o, se vogliamo, del mito personale.
Per fare un esempio un po’ buffo (ma è quello che conosco meglio) la mia ossessione per i corpi erculei prevede almeno tre narrazioni intrecciate: quella di due maschi in competizione tra loro per il possesso della femmina, quella di una donna dominante che sottomette un uomo muscoloso ma debole, quella della trasformazione di una “maggiorata” degli anni Cinquanta in un bodybuilder.
Le tre storie, forse, derivano da un’unica radice botanica (certe amarene rosse e rotonde che mio nonno mi mostrava da bambino) o addirittura astratta e geometrica (la fascinazione per la Sfera). Essere me stesso nel campo dei desideri, per me, significa obbedire a coazioni oscure che spesso sono in contraddizione coi miei sforzi in luce per comportarmi da cittadino decente (per esempio uno che ha rivendicato il diritto al matrimonio paritario e ha usufruito volentieri delle unioni civili).
Gli individui non sono soltanto detentori di diritti, sono nodi di identificazioni e di fantasmi che provocano invincibili coazioni a ripetere e che non possono essere confusi con quelli di nessun altro. Il rapporto tra individualità e identità è spesso conflittuale: la seconda è etica, politica, normativa sia pure di minoranza (se una donna è di destra non è “femminile”), mentre la prima è perversa, antisociale, problematica (nel minimo esempio personale di sopra, conduce all’utilizzo di Ercoli mercenari).
La politica tende a categorizzare le infinite diversità per renderle nominabili secondo la legge: sia per accoglierle (normalizzandole e/o medicalizzandole), sia invece per bollarle come devianze. La letteratura si muove in senso contrario: rifiuta di solito le categorie perché somigliano troppo agli stereotipi, punta su personaggi e relazioni che abbiano il pregio di andare contropelo rispetto alle aspettative («le famiglie felici si somigliano sempre, ogni famiglia infelice lo è a modo suo», scriveva Tolstoj e forse si sbagliava: anche le famiglie felici lo sono a modo loro, basta essere abbastanza bravi e abbastanza coinvolti per notarlo).
Far di tutte le storie un fascio
Un recente libro di Jonathan Gottschall (Il lato oscuro delle storie, Bollati Boringhieri) è teso a dimostrare come le “storie” abbiano avuto un peso enorme nell’influenzare e condizionare i comportamenti umani, e come questo peso stia ancora aumentando nell’epoca dei social e delle fake news.
Le storie, argomenta Gottschall, possono in certi casi favorire lo spirito di comunità ma possono anche fomentare l’odio dividendo le persone in tribù feroci, ciascuna convinta di una narrazione che ritiene la sola giusta, «in base a demarcazioni identitarie». Le storie solleticano le emozioni e sono nemiche della filosofia; Platone (nella Repubblica) esclude gli scrittori dallo stato ideale. Come Platone era angosciato dalla crisi ateniese dopo la sconfitta con Sparta e l’instaurazione di un governo oligarchico, così Gottschall è ossessionato dalla post-verità di Trump e dalla “troll factory”, la fabbrica di provocazioni-disturbo da parte russa, nonché dallo story-targeting commerciale applicato su piattaforme come Netflix.
È totalmente preso dalle neuroscienze, si preoccupa della persuasione occulta che le storie possono esercitare; la sua “grammatica narratologica” è primitiva (le storie che funzionano, e quindi che influenzano, sono quelle in cui «le cose vanno sempre peggio finché all’ultimo minuto non migliorano»). Il grido d’allarme è che lo storytelling amplificato dai social seppellisca per sempre la Ragione illuminista su cui la scienza si fonda.
La sorprendente ingenuità del libro è di fare un unico fascio di tutte le “storie”: dai romanzi famosi al cinema di Hollywood, dalle serie televisive all’indecente e universale diario in pubblico di Facebook. Ma la letteratura non ci sta, si ribella, sguscia via da un libro come questo.
La sedicente “regola” narratologica di cui sopra è smentita mille volte: come la mettiamo con Edipo re di Sofocle e con La metamorfosi di Kafka? Gottschall insiste sulla «giustizia poetica» che premierebbe le storie dove i buoni trionfano e i cattivi vengono puniti: ma che giustizia proclamano, e chi vogliono influenzare, il Giro di vite di James o Giuda l’oscuro di Hardy? Anna Karenina e Madame Bovary raccontano davvero la stessa storia, o non sono invece visioni opposte del mondo?
«La verità», scrive Gottschall mettendoci in guardia, «viene ormai decisa in base alla storia migliore», e per migliore intende quella più capace di diffondersi, puntando su reazioni basiche del nostro cervello. Ma la letteratura migliore non pretende di conoscere nessuna verità, nemmeno quella del dubbio sistematico.
Il correttivo
Come in un brutto sogno, mi è venuto in mente che però un rischio ci sia: se uno studioso può confondere fino a questo punto le cose, e se i giovani per sentirsi “unici” e “liberi” si affidano a etichette identitarie, non è che pian piano anche gli scrittori si penseranno come influencer (condizione ritenuta, chissà perché, invidiabile)? E per far questo dimenticheranno che non sono loro a possedere le storie, ma sono le storie che li possiedono? Non nel senso tanto paventato da Gottschall, di lasciarsi assordare e guidare alla cieca da qualunque bufala, ma in quello più misterioso e nobile di porsi in ascolto di ciò che non dominiamo, che sia un’ossessione o semplicemente la lingua.
Non tutte le storie si incarnano in parole dotate di anima, né sono disponibili a qualunque raffazzonamento di stile. La letteratura è fatta di storie (perfino «m’illumino/ d’immenso» ne ha una sepolta, che parla di un’alba in trincea), ma non tutte le storie sono letteratura. La letteratura non è un’aiutante della politica, è un suo correttivo.
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