- È tipico dei regimi totalitari, o anche dei regimi democratici post-dittatura, imporre politiche di rimemorazione ben definite, con monumentalizzazioni strategiche o esplicite leggi della memoria.
- Oggi la cancel culture apre una riflessione sulla possibilità di cancellare unità culturali dalla memoria e quindi dal senso comune. C’è poi la questione della legittimità di un intervento di pretesa cancellazione della cultura: in nome di chi?
- Anche assumendo l’effettiva esistenza, nel senso comune, di una sensibilità acquisita circa, ad esempio, l’orrore per la schiavitù, non è però altrettanto scontato tradurre tale senso comune dell’oggi in pratica correttiva di testi del passato.
Se le rivendicazioni sul politically correct evidenziano, nel linguaggio verbale, i nuovi doveri di attenzione che una società – almeno in alcune sue frange – avverte, c’è un’altra dimensione della «gestione sociale del senso comune» in cui si rivendicano esplicitamente l’interpretazione e la difesa del sentire sociale: le politiche della memoria.
Gestire la memoria pubblica
La Storia ci ha abituati a molte incursioni nella gestione diretta della memoria pubblica. È tipico dei regimi totalitari, o anche dei regimi democratici post-dittatura, imporre politiche di rimemorazione ben definite, con monumentalizzazioni strategiche (altari della patria, eroi politici e civili ecc.) o esplicite leggi della memoria.
Pensiamo al caso della Spagna post-franchista con la sua Legge sulla memoria storica del 2007, voluta dal presidente Zapatero, rivista dal governo Sanchez nel 2021 con la cosiddetta Legge della memoria democratica, o al caso dell’Argentina che, uscendo dalla dittatura militare nel 1983, si è trovata regolata da una Ley de Punto Final e una Ley de Obediencia Debida: casi, entrambi, di regimi democratici che, per gestire la fase post-dittatoriale, hanno imposto delle politiche di sospensione o regolazione di pene e vendette.
Ma non sono solo i regimi o i governi postregime a intervenire nel campo della memoria pubblica; pensiamo, nel nostro paese, alle giornate per la memoria che, talvolta circondate da qualche polemica ma attraverso un iter parlamentare democratico, vanno a sancire dei doveri di attenzione: la Giornata della memoria, il 27 gennaio, per le vittime della Shoah; il Giorno del ricordo, il 10 febbraio, per le vittime delle foibe; la Giornata della memoria per i militari italiani caduti per la pace, il 12 novembre, ecc.
Pensiamo poi ai monumenti che continuano a essere eretti, anche in tempi di democrazia: a Milano è stata eretta una recentissima statua a Cristina Belgioioso; a Lampedusa troviamo la Porta d’Europa di Mimmo Paladino, eretta in memoria delle vittime migranti. Gestire la memoria, insomma, fa parte della gestione della cosa pubblica, ed è normale che le istituzioni se ne facciano carico.
Cancel culture, chi decide?
Oggi, tuttavia, ha preso corpo un altro fenomeno, che ha alcune specificità interessanti: ci riferiamo alla già citata cancel culture, ovvero a quell’insieme di movimenti sociali che promuovono la cancellazione delle tracce (monumenti e iscrizioni di vario tipo) di memorie scomode, traumatiche, ormai collettivamente riconosciute come legate a soggetti ed eventi che hanno violato i diritti umani.
Riteniamo questo fenomeno interessante e pertinente rispetto alla nostra indagine sul senso comune per varie ragioni. Anzitutto va a colpire un punto implicito nelle pratiche di monumentalizzazione: un monumento aspira all’eternità, ed è percepito (a livello di senso comune...) come riflesso di valori eterni. Metterne dunque in discussione la legittimità crea un cortocircuito (fra due percezioni che sembrano entrambe di senso comune): l’ovvia vocazione eterna dei monumenti e la chiara percezione di una frizione con i valori fuori discussione oggi.
In secondo luogo, la cancel culture apre una riflessione sulla possibilità o meno, dal punto di vista semiotico, della cancellazione di alcune unità culturali dalla rete della cultura, della memoria e di conseguenza del senso comune. Infine, pone la questione della legittimità di un intervento di pretesa cancellazione della cultura: in nome di chi? A che titolo?
Dicevamo poco sopra che sembra far parte della normale gestione istituzionale della cosa pubblica anche la gestione della memoria. Ma gruppi sociali locali o trasversali, senza deleghe istituzionali, possono farlo? In termini semiotici questo problema ha evidentemente a che fare con il legittimo soggetto enunciatore del senso comune, cui abbiamo già accennato: chi se ne può fare portavoce?
Inoltre, questo tema è collegato a un altro aspetto assolutamente cruciale, che qui emerge con evidenza: quello del rapporto tra intervento pubblico, senso comune e discorso ideologico. Infine, emergerà a più riprese la declinazione del rapporto fra buon senso e senso comune, che ogni tanto in questo volume riemerge, come un percorso carsico.
Questione di tempi
Ma torniamo alla cancel culture. Al centro delle polemiche di questo movimento troviamo sempre la denuncia di una storia colpevole: negli Stati Uniti il movimento Black Lives Matter ha promosso l’abbattimento delle statue confederative in Virginia. In Italia si è risvegliata una attitudine aggressiva verso statue legate al nostro passato coloniale: diverse le aggressioni alla statua di Indro Montanelli a Milano (e si è riacceso il dibattito sulla legittimità dei monumenti di epoca fascista). In Sudafrica è emerso il movimento Rhodes Must Fall che ha portato alla rimozione della grande statua di Cecil Rhodes dall’Università di Città del Capo.
I soggetti monumentalizzati sono in tutti questi casi soggetti che, alla luce della consapevolezza civile di oggi, si sono indubitabilmente macchiati di crimini o almeno offese nei confronti di minoranze di varia identità; impensabile, dunque, rendere loro omaggio. Quella della cancel culture sembrerebbe, dunque, una contemporanea e «umanitaria» pratica di damnatio memoriae – in difesa dei diritti civili. Ma non si può trascurare un problema di «profondità temporale», ovvero di relativismo temporale.
Certamente esistono molte pratiche che, con lo sguardo di oggi, risultano inaccettabili: limitiamoci a pensare alle forme di schiavizzazione. Ma può questo accordo assiologico di oggi giustificare la condanna di chiunque, nel passato, abbia contraddetto e negato tali valori? Montanelli – giornalista di indubbie qualità – ci scandalizza per il madamato; Thomas Jefferson – tra i padri fondatori degli Stati Uniti – ci indigna perché aveva molti schiavi; Giulio Cesare – sul cui ruolo per la storia di Roma non ci sono dubbi – dovrebbe provocarci lo stesso sdegno? Fin dove può continuare il regresso nell’applicazione dei nostri criteri assiologici, pur quando sono ormai fuori discussione?
Molta antropologia ci ha insegnato a capire le culture nei loro stessi termini, e ci sembra – questa – un’acquisizione metodologico- deontologica da non dimenticare. Questo impone, dunque, di condannare oggi solo quelle pratiche che già allora, nell’epoca e nella cultura in cui venivano messi in atto, stridevano con i principi assiologici del momento o per lo meno entravano in un’arena di confronto pubblico in cui erano in discussione varie opzioni (ed esisteva già, dunque, la percezione di una possibile ingiustizia).
Laddove l’accordo assiologico di oggi trova riferimenti nel sistema assiologico di allora, si può pensare forse, proprio come nella tradizionale damnatio memoriae, di rimuovere i segni pubblici che danno onore a figure negative della Storia, così come nella Roma antica si rimuovevano le effigi delle persone da dimenticare (ad esempio i volti sulle monete) o si interveniva sulle iscrizioni nominali, rimuovendo con lo scalpello i nomi dei «condannati», lasciando spesso visibile in modo ostentatorio la cancellazione.
E la condanna, ora come allora, dovrebbe riguardare anche le pratiche: chi veniva rimosso dalle monete o dalle iscrizioni pubbliche non poteva neanche essere pianto, né aveva diritto a una sepoltura. Se, però, allora, ciò avveniva per decisione ufficiale del senatus consultum, o, in epoca cristiana, con la scomunica per decisione papale, oggi non abbiamo un soggetto che sia istituzionalmente chiamato a interpretare questo ruolo.
Il rischio di uniformazione ideologica
Emerge, dunque, il problema di chi sia il legittimo portavoce della sensibilità comune, ovvero del senso comune – problema presente in realtà anche nelle rivendicazioni ispirate al politically correct (chi può decidere che è meglio scrivere /car*/ che /care e cari/?). Qui la problematicità del soggetto decisore sembra ancor più rilevante, perché si tratta di interventi materiali e visibili nello spazio pubblico (laddove gli interventi sulla lingua lasciano comunque un margine di discrezionalità soggettiva – di adesione o non adesione – che li rende meno impositivi).
È questo il punto più interessante che emerge anche nel dibattito pubblico attraverso la lettera sottoscritta da intellettuali di chiara fama pubblicata sull’Harper’s Magazine il 7 luglio 2020, che ha criticato la cancel culture per il rischio di uniformazione ideologica che fa correre all’arena pubblica delle idee.
Come ci si può infatti appellare a una sensibilità condivisa e a una pratica di rispetto democratico con un atto di imposizione che risponde alle rivendicazioni di un gruppo?
Anche assumendo l’effettiva esistenza, nel senso comune, di una sensibilità acquisita circa, ad esempio, l’orrore per la schiavitù, non è però altrettanto scontato tradurre tale senso comune dell’oggi in pratica correttiva di testi del passato (altrimenti quanti romanzi dovremmo andare a rivedere, ad esempio?). Implicitamente, le rivendicazioni della cancel culture assolutizzano un punto di vista, il proprio punto di vista, optando per una sorta di valore retroattivo delle valorizzazioni della contemporaneità. E questo corrisponde, a nostro avviso, a un meccanismo ideologico.
L’articolo è un estratto del libro L’Unità del senso comune (Il Mulino, 2022, pagg 168). L'autrice sarà al Festival Filosofia domenica 18 settembre ore 21 in Piazza Grande a Modena.
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