Il 6 giugno 2024 il Tribunale amministrativo di Strasburgo ha stabilito che l’alimentazione forzata di oche e anatre non genera sofferenze “inutili”, scagionando la Francia dall’accusa di aver violato il diritto dell’Ue, e quindi torturato gli animali, per produrre foie gras. La decisione, ovviamente, è controversa: la stessa Francia ha escluso il foie gras dal menu deciso dagli organizzatori dei Giochi Olimpici di Parigi. La produzione totale europea, peraltro, ammonta a circa 500 tonnellate (dati 2022): un’inezia. Per fare un confronto, nello stesso anno, l’Italia ha cresciuto 378 tonnellate di carciofi.

Eppure il foie gras è dovunque un tabù, grazie al fatto è che ostracizzabile a colpo sicuro: le aziende non francesi che lo producono sono poche, e nessuna di loro ha i soldi per difendersi dalle critiche come l’industria del pollo o dei bovini. Inoltre il foie gras è un prodotto da ricchi, ed essendo una prelibatezza occasionale, è facile rinunciarvi.

Il punto però è: ha senso ritenere un abominio il consumo di questo patè di fegato, ormai decaduto dal rango di status symbol e divenuto emblema di crudeltà, se non di ignoranza? È giusto declassarlo da delizia a epitome della nequizia, mostrando video girati nelle peggiori fattorie (come quella per esempio, presente in un terrificante video recentemente diffuso da Animal Equality) e facendo così sembrare che tutta la produzione del foie gras sia altrettanto spregevole?

Il cambio di rotta

Va dato atto ai critici che non si tratta di un bene di prima necessità e che esiste anche un fois gras etico (180 grammi costano 199 euro), come quello prodotto dallo spagnolo Eduardo Sousa, che macella gli uccelli in inverno, quando sono più grassi, senza ingozzarli con un tubo di plastica (una pratica chiamata gavage). Inoltre, ne esistono versioni vegane, come quella a base di funghi creata dallo chef tedesco Sebastian Frank.

La stranezza però è che già il 15 febbraio 2022 il Parlamento europeo ha approvato una relazione secondo la quale la produzione di foie gras si baserebbe su procedure di allevamento rispettose del benessere animale. La mossa ha rappresentato un cambio di rotta per gli eurodeputati, che un anno prima avevano chiesto un divieto totale dell’alimentazione forzata nel rapporto End the Cage Age, del giugno 2021.

Interrogato sulla sua posizione in merito, il presidente della Commissione agricoltura e relatore del rapporto, il tedesco Norbert Lins, ha spiegato al sito Euractiv di essersi astenuto dal votare sugli emendamenti specifici sul foie gras per rispetto delle tradizioni culturali: «I prodotti agricoli e la loro produzione artigianale sono al centro della nostra cultura europea e fanno parte delle nostre tradizioni, per quanto esse debbano muoversi verso criteri di sostenibilità e benessere animale più elevati» ha dichiarato Lins.

Questione culturale

Sta in queste parole il cuore (o forse il fegato) della questione: la natura del foie gras, e quindi il giudizio morale su di esso, dipende dalla storia culturale di chi lo guarda. Alternativamente, infatti, questa prelibatezza può apparire come un’epitome del primato culinario dei francesi, una derivazione di una sadica tecnica di alimentazione forzata, un’espressione autentica di artigianato tradizionale, «la cosa più deliziosa del mondo» (Anthony Bourdain dixit), o un cibo immorale, perché ogni valutazione dipende da motivazioni culturali e politiche, più che da criteri oggettivi.

A sostenerlo è la sociologa Michaela DeSoucey della North Western University nel saggio Contested Taste: Foie gras and the politics of food, in cui questo contestato alimento è il fulcro di un ragionamento che lo travalica. Quello, cioè, sull’incidenza della gastropolitica sulla nostra tavola, ovvero dei «conflitti sul cibo che si collocano all’intersezione tra movimenti sociali, mercati culturali e regolamentazione statale» e che fanno di un piatto il precipitato di una visione del mondo.

Da un lato abbiamo dunque chi presenta il paté come l’erede di una lunga tradizione, che ha il suo apice in Francia, ma sorvola sul fatto che, dalla Seconda guerra in poi, è più di rado un prodotto artigianale, frutto di una sapienza millenaria, che un prodotto venduto in tutto il mondo da Rougié, il più grande produttore di foie gras al mondo, di proprietà della multinazionale francese Euralis.

La produzione peraltro beneficia di un governo che dagli anni Novanta si è mostrato desideroso di valorizzarlo prima come “indicazione geografica protetta” e, dal 2005, come parte del “patrimonio gastronomico ufficiale” del paese, incorporandolo in un’eredità internazionale di eccellenza culinaria ben “prima che Bruxelles si occupasse della questione” segnala la studiosa.

Dall’altro lato, abbiamo chi contesta il modo in cui sono trattate le oche, a dispetto della scarsa similitudine tra come funziona la nutrizione umana rispetto a quella degli uccelli. «Anatre e oche non hanno il riflesso faringeo, né hanno nervi in gola come gli umani» scrive DeSoucey, dopo aver parlato con i veterinari e visitato gli allevamenti. «Allo stato selvatico possono ingerire persino sassi e bastoni. Pensiamo “Oddio, ma farà male, sarà dolorosissimo” perché ci identifichiamo, come se soffocassimo. Ma anatre e oche sono biologicamente diverse, e non fa male a loro come pensiamo possa far male a noi». E dallo stesso lato abbiamo chi, per ragioni “umanitarie”, bandisce dal suo paese il fois gras, come la California, che ne ha vietato la produzione con una legge del 2004 (entrata in vigore nel 2012), imitata da molti altri paesi, tra cui l’Italia.

Usa vs Francia

Sono stati per primi gli animalisti Usa ad applicare la cancel culture al patè di fegato perché è un bersaglio perfetto: qualcosa di costoso e prodotto altrove, su cui appuntare uno specismo tattico («Salviamo le oche oggi e pensiamo agli altri animali domani») che cerca consenso per poi provare a censurare il consumo animale in toto. E da qui si capisce come attorno a questo paté, sostiene DeSoucey, si contrappongano due schieramenti: Francia vs Usa, tradizione contro civiltà, passatismo contro avanguardia, primato della storia umana contro diritti degli animali, autenticità contro standardizzazione dei consumi.

Vietare il foie gras è un modo per tracciare una linea tra consapevolezza e brutalità, definire il campo cui si appartiene, connotarsi più per quello che non si mangia che per quello che si mangia. E dire che l’americano medio consuma 1,2 grammi di foie gras all’anno, contro a 36 chili di prodotti a base di pollo. Ma il pollo, pure allevato in condizioni spesso disumane, non è bandito negli Usa né altrove. Il fatto è che i prodotti detti cruelty free fanno parte di un più ampio bagaglio di conoscenze e di censure, che distingue chi sa (o no) cosa c’è dietro la produzione di certi beni e che si propone di tutelare gli animali e mortificare gli umani che li consumano.

Vale per noi stranieri, disgustati dal foie gras, ma anche per i francesi stessi: mentre per le autorità francesi il paté è diventato un feticcio dell’autenticità e della maestria locale contro la globalizzazione, in un sondaggio del 2017 il 37 per cento dei cugini d’Oltralpe ha dichiarato di non acquistarlo a causa di preoccupazioni sulla sua produzione, perché si può essere francesi, ma non interessati a tutelare la propria “eccezione culturale” in favore di un comportamento politicamente corretto.

Così il foie gras, stritolato dalla logica della gastropolitica, resta uno status symbol da retrogradi e, perfino dove è nato, l’oggetto di un ostracismo dettato da una sensibilità nata altrove. Il pericolo però è che il comune sentire diventi poi un dogmatismo che, in nome delle buone intenzioni, soffoca le tipicità.

Un rischio che si ritrova nelle parole espresse da Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità, in occasione del bando californiano del foie gras: «Nel caso in cui il metodo di allevamento vada contro i requisiti minimi del benessere animale, lo stato può avere il diritto di bandire un prodotto e vietarne la vendita? E quanto un prodotto rappresentante una tradizione secolare può prevalere sui principi del benessere animale, sulla legislazione di un paese e sul senso comune dei consumatori?». Pensiamo alla sanguinosa uccisione del maiale come è stata fatta in passato, per produrre carne e salumi, prima di dare la nostra risposta.

© Riproduzione riservata