Nel suo ultimo film Everybody Loves Touda il regista francomarocchino si concentra sulla figura di una cheikha, artiste popolari del paese: «Queste donne cantano da secoli storie di resistenza, racconti epici o altamente politici. Hanno fatto parte di tutte le lotte della storia del Marocco»
Il regista francomarocchino Nabil Ayouch continua a esplorare i tabù del Marocco contemporaneo con Everybody Loves Touda, nella sezione Première del festival di Cannes.
Dopo aver affrontato il jihadismo in Les Chevaux de Dieu (Un Certain Regard, 2012) e la prostituzione in Much Loved (Quinzaine des réalisateurs 2015), è la volta delle cheikhate: delle artiste popolari del canto tradizionale tanto affascinanti quanto vituperate.
La protagonista Touda resiste. Rifiutando di essere una preda, mantiene il controllo del suo corpo, dei suoi desideri e del suo destino. Attraverso il ritratto, una donna forte e libera che sogna di cantare, Ayouch tratteggia i contorni di una società ancora segnata dal patriarcato.
Perché un film su un’aspirante cheikha, queste artiste popolari che ballano e cantano da secoli in Marocco?
In Marocco tutti crescono con le cheikha, fanno parte del nostro dna, sono donne presenti in tutte le celebrazioni: circoncisioni, matrimoni, feste, serate private nelle case. E tramandano l’aita, una poesia cantata, audace e sovversiva. Le ho sempre ammirate, incarnano una forza e un potere femminile che volevo omaggiare.
Questo film è nato dal desiderio di restituire loro uno status, una forma di riconoscimento come artiste. Negli ultimi cinquant’anni, molte di loro sono state costrette a trasferirsi nelle città e a cantare nei bar e nei locali notturni, la loro immagine è cambiata e molti le prendono ingiustamente per prostitute.
Voleva restituire loro la dignità di artiste, ma anche di resistenti?
Queste donne cantano da secoli storie di resistenza, racconti epici o altamente politici. Hanno fatto parte di tutte le lotte della storia del paese, anche durante il protettorato francese incitavano alla ribellione, facendosi eco da una montagna all’altra. E poi, a poco a poco, hanno cominciato a cantare parlando anche di amore, desiderio, corpo. La loro arte è da sempre sovversiva.
Di fronte a una protagonista così forte e anticonvenzionale, crede che l’uomo medio marocchino sia pronto a identificarsi?
Quando Touda si esibisce nei locali notturni, si sottopone inevitabilmente allo sguardo concupiscente di alcuni maschi che la giudicano e la vogliono dominare, ma fuori dalla scena ci sono anche uomini che la aiutano.
Innanzitutto c’è suo figlio, che è la ragione principale per cui combatte, e suo padre, un personaggio insolito e commovente, che la difende dal fratello e dal resto della società. In Marocco ci sono molti uomini come loro, estremamente rispettosi delle donne, molto sensibili a ciò che il mio cinema ha da dire, uomini che mi hanno detto quanto i miei film hanno avuto un impatto su di loro. Credo che ci siano molte persone là fuori che non vedono l’ora di aprire gli occhi e la mente.
È un atto eroico fare il regista in Marocco?
Ci sono battaglie da combattere attraverso i film, e non è sempre facile. Tutti i miei film nascono dalla necessità di raccontare persone che ho incontrato nella vita reale che mi hanno sconvolto, tormentato, commosso. Sentivo che c’era una violenta ingiustizia nei loro confronti, o quantomeno che veniva loro negato il diritto di essere ascoltate e rappresentate. Ecco, dare voce e corpo agli invisibili è stato uno degli aspetti che ha guidato il mio lavoro nel corso degli anni.
È dunque inevitabile, quando un mio film fa uscire dall’ombra queste persone, che ci siano reazioni e avversità, nel caso di Much loved (2015) sono stato persino censurato e minacciato di morte in Marocco. Ma ho deciso di non avere paura e di continuare a essere sincero perché credo che il cinema abbia un ruolo importante nel cambiare le mentalità, e quando succede, si ha la sensazione di potere, con il cinema, scalare qualsiasi montagna. Sembra un discorso ingenuo, da incoscienti, ma è ciò che mi fa andare avanti.
Ha deciso di non cedere alla paura ma deve essere difficile di fronte a minacce di morte. So che ultimamente è stato di nuovo minacciato dagli islamisti perché si è espresso a favore della riforma del codice della famiglia in Marocco?
Il re Muhammad IV ha chiesto a una commissione indipendente di rivedere il codice che regola il diritto di famiglia su questioni fondamentali come la discriminazioni delle donne in materia di eredità e tutela dei figli, la poligamia, il matrimonio dei minorenni, le donne nella società e i loro diritti. C’è stata allora un’ondata di proteste da parte dei conservatori contro le attiviste femministe, gli intellettuali e gli artisti come me e mia moglie (la regista Maryam Touzani).
Ecco, credo che questo ci dia un’istantanea di un paese diviso tra modernità e conservatorismo, purtroppo di questi tempi non è l’unico paese in questa situazione, anzi… E questo ci fa capire l’entità della battaglia che ci resta da condurre come artisti, politici, cittadini, ognuno a modo suo, con semplicità.
Lei è membro dell’Academy degli Oscar e so che ha ricevuto diverse proposte di film all’estero. Perché ha sempre rifiutato?
Ricevo molte sceneggiature, dall’Europa e dagli Stati Uniti per dirigere film o serie, ma non ho mai ricevuto un progetto che mi abbia dato voglia di lasciare il Marocco e il suo popolo, con cui ho un rapporto a volte complesso, a causa di alcune incomprensioni, ma che è un popolo che amo profondamente e che continua ad ispirarmi.
Da dove nasce la sua passione per il cinema? Qual è stato il primo film che ha visto e dove?
Il primo film che ho visto è stato Tempi moderni di Chaplin. Sono cresciuto dai cinque ai 15 anni a Sarcelles, nella periferia parigina, e mi sono fatto una cultura cinematografica in un MJC, un centro culturale per giovani. Era un comune comunista e proiettavano sempre cinema proletario: Eisenstein, Buster Keaton, Charlie Chaplin.
Che cosa è rimasto di Tempi moderni nel suo cinema?
Credo che sia rimasta una consapevolezza politica e sociale molto forte e un impegno nei confronti di persone che subiscono ingiustizie economiche, sociali o di altro tipo, e che spesso la società rifiuta di vedere e di ascoltare perché disturbano. Chaplin è riuscito magnificamente a trasformarli in eroi. Un altro regista che adoro è De Sica, Ladri di biciclette ha influenzato molto Ali Zaoua, il mio secondo film sui bambini di strada a Casablanca.
È stato complicato farsi accettare in Marocco? Le differenze sociali e culturali sono tali che per un artista cresciuto in Francia non deve essere facile avere un rapporto alla pari con la gente comune.
Ho sempre avuto la sensazione di essere visto come un outsider, un estraneo. In Francia, con un nome come il mio, non facevo molto francese. E quando sono arrivato in Marocco, non parlavo bene la lingua. Inoltre ho una doppia cultura, con madre ebrea e padre musulmano, e sono laico e repubblicano in un paese in cui la religione è di stato… Diciamo che mi sono sempre sentito fuori posto, la gente mi ha sempre guardato con gli occhi sgranati.
La strada è stata lunga, non perché volessi per forza piacere o essere accettato, ma perché volevo imporre la singolarità della mia visione che è frutto della mia particolarità culturale.
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