- Siamo abituati a percepirci come amministratori generali del nostro dolore. Tra le situazioni che prevedono di dover prendere una decisione, quella di partecipare o meno a un rito funebre è questione molto soggettiva
- Ma per le persone carcerate spesso questa non è una scelta: poter andare o no al funerale di una persona cara dipende da molti fattori
- A chi sta in carcere viene inoltre tolta la possibilità di vivere il lutto anticipatorio, il periodo della malattia in cui si inizia a elaborare la perdita di un proprio caro
Siamo abituati a percepirci come amministratori generali del nostro dolore. Anche se capita di subire influenze esterne, pressioni sociali o famigliari, anche se veniamo fuorviati dallo stress o dalla frenesia degli eventi ci sentiamo incaricati di decidere per noi stessi. In modo più o meno opportuno, più o meno informato, ma comunque in autonomia. Tra le molte situazioni che prevedono di dover prendere una decisione, quella di partecipare oppure no a un funerale, di confrontarsi oppure no con la visione di una salma, è questione molto soggettiva.
Lo spettro dei pareri è ampio e piuttosto fluido, la propensione di un individuo verso una direzione piuttosto che un’altra può dipendere dai più vari fattori (l’età, una particolare fase della vita) e modificarsi nel tempo. Pensiamo di rado, o piuttosto non pensiamo mai, al fatto che quella di vivere il lutto e partecipare al rito funebre non è per tutti una scelta che possa essere davvero compiuta in libertà.
Lutto e carcere
Ogni mattina ci alziamo e sappiamo che la nostra giornata sarà scandita da una serie più o meno precisa di impegni inderogabili e piccoli riti, e che il principio vale anche per gli archi temporali più estesi, fatti di settimane, mesi e anni. Una sera risalente a poco prima dello scorso Natale, per esempio, partecipavo alla presentazione di un libro calendarizzata da tempo. Era strano parlare in pubblico dopo mesi di fermo, era un piacere incontrare persone che non vedevo almeno dall’inizio del 2020. Tra queste c’era Giulia Ribaudo, fondatrice dell’associazione culturale Closer.
Closer esiste dal 2016 e si occupa di portare cultura nei luoghi in cui è più difficile farla arrivare. Una delle realtà in cui volontarie e volontari sono più attivi è quella del carcere femminile della Giudecca, a Venezia.
Fin dal suo principio la pandemia ha per forza di cose bloccato e rallentato anni di attività che, in un’operazione di osmosi tra il dentro e il fuori, hanno visto la nascita di eventi aperti al pubblico e gestiti dalle stesse donne detenute. Proprio dal blocco pandemico è nata l’idea di creare Piombi, una newsletter che continuasse a parlare al mondo fuori di che cosa vuol dire essere dentro. Quella sera Ribaudo mi ha chiesto se avrei avuto piacere di scrivere un contributo. Nello specifico chiedeva se potessi scrivere qualcosa sul lutto vissuto dalla detenzione. Le ho confermato che ero senz’altro interessata. Ero interessata, soprattutto, a iniziare a ragionare su un tema rispetto al quale non mi ero mai posta domande.
Il vuoto di ricerca
Le ho chiesto a quale tipo di lutto si riferisse esattamente. Ha risposto: «A quello di chi sta dentro al carcere e perde qualcuno che si trova fuori». Ho cercato materiale che potesse aiutarmi ad avere un primo approccio teorico a un campo per me nuovo e quel che ho trovato è stata un’approssimazione abbastanza precisa del nulla.
Ho attribuito lo stallo a una mia mancanza di famigliarità con il tipo di ricerca e fatto quel che faccio in genere in questi casi, ovvero chiedere a chi ha molta più esperienza di me. Ho scritto alla professoressa Ines Testoni. Nei pezzi a tema “morte” non è raro che la citi, perché è una delle massime esperte italiane in tanatologia e death education. Testoni ha risposto con l’usuale prontezza e detto qualcosa che in tutta onestà, forse ingenuamente, non mi aspettavo. Ha confermato che «non esiste letteratura scientifica sul lutto vissuto dalle persone carcerate» e sottolineato che non esiste perché, anche in questo campo, si tratta di una popolazione messa ai margini, tenuta lontana dagli occhi e da qualunque forma di ricerca che implichi una riflessione etica sulla loro condizione.
Il primo passo per parlare di una mancanza è parlare del vuoto che la configura come tale, di com’è fatto, del perché esiste e per quali ragioni andrebbe riempito. Procederemo dunque per piccoli passi e partiremo dal considerare che vivere in un carcere, insieme alla naturale scansione del tempo fa saltare i concetti di passato, presente, futuro e, con essi, quello del rito. Chiediamoci, dunque, che cosa significa attraversare un eterno presente svalorizzato e svuotato dei contenuti che fanno una società? Che cosa succede quando in questo eterno presente fanno irruzione la morte e il lutto?
Burocrazia e comunicazione
«Volevo che venisse trattato il tema della morte in carcere perché, parlando con le donne detenute, mi sono resa conto che questo tema non viene particolarmente affrontato. In questo contesto, il fatto che una persona possa partecipare o meno al rito, dipende da diversi fattori». Quando affrontiamo l’argomento, Ribaudo spiega che la possibilità di partecipare a un funerale dipende dall’avere un permesso, dal vederselo negato, oppure dal non riceverlo in tempo. «Questo», prosegue, «è l’aspetto burocratico, poi c’è quello della comunicazione. I problemi di comunicazione sono legati al fatto che la persona detenuta può non ricevere notizia della morte del suo caro in tempo utile per richiedere il permesso. Nel caso di malattia, non è inoltre scontato che i parenti ne diano informazione».
Poiché a causa dell’aspetto burocratico non è detto che il lutto possa essere vissuto insieme, per non arrecare ulteriore sofferenza le persone carcerate sono talvolta tenute all’oscuro dello stato di malattia irreversibile dei loro affetti. «È successo», spiega Ribaudo, «che mi venisse raccontato dell’omissione del lutto stesso». Emergono in particolare due casi, che dettaglieremo il meno possibile per rispettare l’anonimato delle donne detenute.
Il primo è quello di una dolente che non riceve notizia della morte di un affetto, ma arriva a comprenderlo da sé attraverso una serie di indizi legati a comunicazioni mancate da parte della persona defunta. Il secondo è quello di una dolente che riceve notizia della morte di un affetto, ma non può partecipare al rito né ha modo di condividere la fase dell’elaborazione con le altre persone coinvolte. Questo lutto sarà messo da parte – quasi fosse chiuso in una scatola mentale – per un tempo lungo e, infine, riproposto dopo anni a interlocutori esterni come fosse una novità recente.
Elaborazione
L’elaborazione del lutto è il percorso attraverso cui processiamo una perdita. La sua importanza consiste nel fatto che ci permette di ricominciare a vivere nonostante il dolore. Ci permette, in altre parole, di reagire in modo che questo non si cristallizzi in forme traumatiche, patologiche o invalidanti. Questo non significa negare la sofferenza né cancellare la memoria, bensì affrontare l’una e dare un posto all’altra.
Può essere un percorso lungo e difficile durante il quale si proveranno una vasta gamma di sentimenti. A fasi alterne e in modi imprevisti e imprevedibili si proveranno rabbia, vuoto, negazione, depressione, difficoltà di concentrazione, scollamento dalla realtà, desiderio di coprire tutto con forme di iperproduttività. Immaginiamo ora di vivere questa esperienza da un carcere. Un pezzo di quella costellazione che rappresenta il mondo fuori, verso cui tendiamo e che ci fa andare avanti, non esiste più. Nella migliore delle ipotesi lo abbiamo visto e salutato, magari esprimendo il nostro affetto, durante una visita in tempi relativamente recenti. Sempre nella migliore delle ipotesi, le comunicazioni con l’esterno e con gli altri affetti coinvolti sono state state adeguate, i tempi della burocrazia hanno collimato con quelli della morte e, infine, siamo riusciti ad assistere alla cerimonia funebre.
Nella peggiore delle ipotesi niente di tutto questo si è verificato e il quadro risulterà ben diverso: le comunicazioni potrebbero essere state difficoltose, i tempi della burocrazia ostici, il permesso ad assistere al rito potrebbe essere stato negato o essere giunto troppo tardi. Nel periodo successivo a questi eventi si potrebbe poi desiderare la solitudine. Si potrebbe voler sentire spesso, o in momenti specifici e improvvisi, la voce dei dolenti che condividono la stessa perdita. Si potrebbe desiderare di partecipare con gli altri cari alla cernita degli oggetti del defunto, e magari avere con sé qualcosa di suo. Si potrebbe non desiderare niente di tutto ciò e versare in uno stato di profondo ottundimento. Si potrebbe aver bisogno, senza magari neanche saperlo, di una psicoterapia mirata. Tutto questo, all’interno di un carcere, risulterà essere molto complesso o impossibile, e questa complessità o impossibilità appesantiranno ulteriormente il carico della persona dolente.
Perdere quel che si è già perso
Consideriamo ora che esiste anche il tempo della malattia. Il cosiddetto lutto anticipatorio, che si sperimenta quando si riceve comunicazione che un caro è malato in modo irreversibile, è insidioso. Una malattia può essere più e meno lunga e, in fondo a questa, ci sono gli ultimi giorni e le ultime ore di vita del morente. Quei momenti sono di importanza cruciale e, sempre nella migliore delle ipotesi, vedono il morente a contatto con i suoi affetti più stretti. Sono tempi estremamente delicati dal punto di vista emotivo, psicologico, e anche logistico.
Nel tempo del morire le abitudini si sovvertono e le priorità saltano. Non sarà concesso dare ragione alla propria agenda sopra ogni altra cosa, bisognerà vegliare a lungo e consolare chi si sente affranto. Mantenersi saldi sarà difficile e avere degli appoggi si rivelerà perciò di grande aiuto. In questo contesto risulta chiaro come lo stare accanto a un congiunto gravemente malato può aiutare a definire l’individuo anche nei termini della sua utilità all’interno della rete di riferimento.
Abbiamo detto che la ricerca è inesistente e in mancanza di ricerca avere risposte è difficile. Possiamo però iniziare interrogando noi stessi, porci la domanda: per chi facciamo quello che facciamo nei momenti di crisi? Per chi cerchiamo di uscire da uno stato di grande scoramento, magari di umore depresso? Per chi superiamo un esame particolarmente ostico? Per chi cerchiamo lavoro dopo averlo perso? Per chi modifichiamo il nostro stile di vita di modo che sia più sano e che auspicabilmente ci conservi più a lungo? Per chi resistiamo alle asperità che non di rado la vita ci pone davanti? La più contemporanea delle risposte sarà che lo facciamo solo ed esclusivamente per noi, per lo sviluppo, il progresso e il benessere individuale.
Un più attento esame di realtà ci farà però concludere che, oltre all’io, c’è anche l’altro. Spesso il nostro margine di miglioramento si fonderà anche sulle azioni che compiamo per essere presenti, utili, funzionali e – perché no? – degni di ammirazione per i nostri affetti. Le persone che vivono il carcere resistono anche in funzione di chi ne sta al di fuori, di chi attende un incontro durante le visite, o il ritorno. Che si tratti di famigliari biologici o di elezione, di partner oppure di amicizie intime poco importa; questi possono incarnare obiettivi verso cui tendere e motivazioni a cui appoggiarsi per affrontare il quotidiano. Ancora una volta chiediamoci, che cosa succede quando una di queste motivazioni smette di esistere?
«Impegnandomi da volontaria in carcere», conclude Ribaudo, «mi sono sempre interrogata su che cosa significhi sapere che una persona è morta dopo che in un certo senso l’hai già persa, perché sei lontano da tanto tempo, e quindi hai già vissuto una forma di lutto. Questo forse è l’aspetto che mi ha spinta di più a chiedere un contributo sul tema. Se tu vivi un lutto dal carcere, mi viene da pensare, devi archiviare la persona che è morta. Mi sono chiesta come le donne detenute trovino dei sistemi per compiere questa archiviazione. Anche perché i colloqui non si possono fare con tutti, quindi magari non archivi la mamma, non archivi il compagno, ma archivi la migliore amica.
E, nel momento in cui questa viene a mancare davvero, com’è che senti questa sua mancanza? Forse riesci a comprendere il lutto nel momento in cui rientri in società. Non lo so, ma a quel punto credo vengano messe in moto delle questioni forse più urgenti di cui occuparsi, e magari non hai il tempo di preoccuparti del fatto che ti manca la migliore amica. Perché comunque la tua vita è cambiata da quando sei entrata, sei stata, e sei uscita».
Lontano dagli occhi
Quello del lutto è forse il momento in cui maggiormente si corre il rischio di smarrire se stessi. Per questo è anche una fase dell’esistenza in cui è essenziale non rimanere isolati. Dovrebbe dunque essere pressoché scontato come l’elaborazione di un lutto attraverso vicinanza, presenza, scambio e rito sia di enorme importanza per un individuo privato della sua libertà, e inserito in un percorso che si suppone essere di recupero e di reintegrazione. Il lutto, se vissuto senza possibilità non solo di visite all’esterno, ma anche di comunicazioni assidue, genererà frustrazione, angoscia, senso di colpa e di inadeguatezza. Impedirà alla persona carcerata di riappropriarsi di un ruolo famigliare e dunque sociale.
Infine, la vicinanza nel morire è importante perché permette a chi è recluso e a chi sta morendo di avere un contatto umano che rasserena il morente, pone le basi per il corretto processo di elaborazione da parte di chi resta e, in ultima analisi, dovrebbe essere considerato un diritto fondamentale. La frattura nell’elaborazione, in addizione allo scollamento dall’usuale scansione del tempo e dei riti, rappresenta non solo un rischio per l’accettazione della perdita ma, in un quadro più ampio, anche per la riuscita del rientro in una società che prevede a sua volta strutture sociali delimitate da regole e confini.
Ricordare come l’elaborazione della morte e del morire riguardino anche la popolazione carceraria, da sempre nascosta agli occhi del mondo sotto ogni aspetto, è una questione da cui non dovremmo più permetterci di prescindere.
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