Sono passati due anni, ma ancora non si è fatta chiarezza su ciò che è accaduto nelle carceri italiane tra il 7 e il 9 marzo del 2020, mentre il “grande lockdown” rinchiudeva in casa loro anche i comuni cittadini.

Nella grande confusione del momento, la serie di rivolte e sommosse violente che ha investito 70 dei 189 istituti penitenziari sparsi per la penisola (numero cui va aggiunta una trentina di proteste pacifiche) è stata dapprima sottovalutata.

Solo quando gli edifici hanno iniziato a prendere fuoco la notizia ha raggiunto i telegiornali, aggiungendosi al trauma del Covid e al tracollo delle Borse. Lì per lì è sembrata la fine del mondo, e naturalmente non lo era. La Storia non finisce, a dispetto di quanto annunciava Francis Fukuyama trent’anni fa. Continua come sempre, anche se certo, più che rinnovarsi ultimamente sembra ripetersi. Anzi: recidivare.

Il caso di Modena

A Modena, nella casa circondariale Sant’Anna, durante la rivolta del 2020 hanno perso la vita nove detenuti. Un numero altissimo, specie se si considera che negli altri cento istituti colpiti i morti sono stati in tutto quattro.
Gli edifici teatro di quella strage sono stati semidistrutti, tanto che a due anni di distanza non hanno ripreso la piena capienza e funzionalità. Le indagini su dinamiche e responsabilità non sono ancora chiuse definitivamente. Le famiglie delle vittime non smettono di chiedere a gran voce la verità, come ha raccontato di recente anche Domani.

A me, che quel carcere l’ho frequentato come bibliotecario, e a un certo punto ho anche deciso di raccontarlo in una serie di romanzi gialli, la cosa che più disturba è pensare che nove persone siano morte mentre erano sotto la nostra custodia.

Sono certo che chi doveva vigilare abbia fatto del suo meglio, e una sommossa è una sommossa, difficile garantire la sicurezza di tutti, ma resta il fatto che se non li avessimo rinchiusi per il bene comune, quei nove uomini sarebbero ancora vivi. Per finire dietro le sbarre avevano probabilmente le loro colpe. Ma pagare con la vita, e in mio nome? Questo anche no.

Le pene alternative

Esistono, si sa, altre forme di pena che non comportano la reclusione. In Italia non sono molto applicate, e nemmeno particolarmente numerose: affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare, semilibertà.

All’estero il discorso è più articolato, e sta erodendo pian piano il primato delle prigioni, tanto che in Svezia, negli ultimi cinque anni, ben quattro sono state chiuse e riconvertite ad altri usi.

Limitazioni delle libertà personali accessorie, arresti domiciliari frazionati (ad esempio nei fine settimana), percorsi rieducativi anziché detentivi, reclusione in luoghi naturali con libertà di movimento, lavori socialmente utili.

Tutte misure che non ammassano decine e centinaia di persone in strutture anguste, malmesse e disumanizzanti (non solo per gli ospiti, come testimonia il tasso di suicidi tra gli agenti carcerari). Strutture dalle quali i detenuti escono in condizioni fisiche, mentali e sociali peggiori di quando ci sono entrati, sempre che ne escano.
Ed è questo il dato che dobbiamo ricordare: in Italia ogni dieci detenuti scarcerati, 7-8 finiscono per tornare dietro le sbarre.

I nostri istituti, si dice, hanno le porte girevoli, e quindi falliscono de facto nel compito di riformare i loro ospiti, l’obiettivo specifico per cui esistono. Checché se ne pensi, infatti, non si sbattono i colpevoli in gattabuia per punirli. Li si isola per controllarli, e per rieducarli. Questo vuole il nostro ordinamento, sulla carta uno dei più illuminati del mondo, indicando anche il modo in cui si può ottenere il risultato.

Voglia di riscatto

La legge 354 del 1975 nomina il lavoro nelle carceri come uno dei fattori fondamentali per la riabilitazione dei detenuti. Lavoro durante la reclusione, per addolcire e mettere a frutto il periodo di detenzione. Lavoro dopo la reclusione, per consentire il reinserimento nella società del reo che ha pagato il suo debito.

A un profano o a uno scettico possono sembrare belle parole vuote, ma anche qui i dati raccolti in decenni di osservazione sono eloquenti: lavorare riduce di molto la probabilità di tornare a commettere un reato, portandola dal 75 per cento (quei 7-8 detenuti su dieci) a meno del 10 per cento. In altre parole: date loro un impiego, una professione o un’arte, e nove detenuti su dieci, una volta fuori, righeranno dritto.

Su questo assunto si basano i miei gialli dedicati alle gesta degli Ammutinati, Il club Montecristo e Vivi nascosto. Quando andavo in carcere per leggere e raccontare libri ai detenuti, mi trovavo spesso di fronte a due dati di realtà spiazzanti: primo, i detenuti erano contentissimi di passare due ore con saggi e romanzi («Viva la narrativa d’evasione!», scherzavano), e secondo, tutti loro, chi prima chi poi, venivamo a raccontarmi il motivo per cui erano finiti dentro, e la voglia bruciante che avevano di riscattarsi una volta fuori.

Il desiderio assoluto di non tornare dentro mai più, perché «dentro» non è una vacanza pagata: è l’inferno. Eppure, mi spiegavano le educatrici, molti di quegli uomini erano ospiti seriali del Sant’Anna. Non che i loro proclami fossero falsi o velleitari: se c’era un compito da svolgere accorrevano, e quando altri venivano a insegnare loro matematica, italiano, inglese, musica, erano entusiasti di mettersi sotto. Il teatro in carcere, altro esempio virtuoso. O le esperienze con il maneggio a Opera. Gli esempi di occasioni riabilitative colte al volo dai detenuti erano molteplici, eppure la recidiva continuava a colpirli. Perché?

Nel cuore della società

La risposta è semplice: perché nessuno offre lavoro a un ex truffatore. Nessuno affitta casa a un ex ladro. È la natura umana, ed è comprensibile. Lo stato non riesce a costruire un numero sufficiente di occasioni fuori dal carcere, e gli ex carcerati, anche quelli in buona fede, non trovando spiragli finiscono per tornare sulla vecchia via.

Nella finzione dei miei gialli la soluzione viene da un uomo speciale, Primo, che, dopo essere uscito di prigione riesce in qualche modo a ottenere un lavoro e su quello costruisce con pazienza un piccolo impero fatto di ditte, società, negozi, appartamenti.

Invece di usarli per arricchirsi, però, decide di metterli al servizio del club Montecristo, una sorta di società di mutuo soccorso (siamo in Emilia, dopotutto) che trova casa e lavoro agli ex galeotti e li aiuta a rifarsi una vita, a patto che non tornino a delinquere. Quando poi mi è capitato di parlare con detenuti che avevano letto questi romanzi, nei loro occhi ho visto balenare una luce di entusiasmo. «Magari succedesse», mi hanno detto alcuni. «Sarebbe proprio da fare».

Fuori dalla finzione, in attesa di un Primo in carne e ossa, non è poco quello che viene già fatto da associazioni e privati. Un’iniziativa, su tutte, mi ha conquistato, perché mette insieme la forza riabilitativa del lavoro e un nuovo rapporto (un nuovo dialogo) con i cittadini.

Si chiama FreedHome – Creativi dentro, ed è un progetto di economia carceraria che riunisce oltre venti istituti italiani, da Trento a Trani. Chi produce frutta secca (Sprigioniamo sapori, Ragusa), chi cancelleria (Altracittà, Padova), chi dolci (la Banda Biscotti, Verbania), chi borse e accessori (le Malefatte, Venezia), vendendo prodotti di alto artigianato («il massimo della qualità, non il massimo del profitto, per dare valore a un futuro possibile») tramite un sito web con spedizione in tutta Italia (https://www.myfreedhome.it) e un negozio fisico a Torino – non nascosto in qualche quartiere periferico, ma in pieno centro, a due passi da piazza Castello, nel cuore della società. Proprio dove il discorso sul carcere dovrebbe sempre stare.

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