Quanto tempo ci vuole per elaborare un trauma capitale, di quelli che diventano imprescindibile soglia tra prima e dopo? Tanto quanto ne serve perché una causa legale vada a sentenza: sette anni.

Alice ancora non lo sa (Mondadori) è il racconto preciso e doloroso di questo secondo movimento – l’elaborazione del trauma –, ma parte dalle carte bollate che di quella ferita originaria sono il vistoso esito cicatriziale, nero su bianco come la sentenza che viene riportata per esteso a pagina uno.

È una sentenza di pignoramento, che prende l’Alice del titolo, svagata e sognante come l’eroina di Lewis Carroll, e la cala brutalmente nel mondo reale, citandola sulla linea tratteggiata dei documenti con nome e cognome: Alice Giordano, la cui casa di famiglia sarà pignorata e venduta all’asta. E tutto questo perché Alice – che da qui in poi perde il cognome e recupera la sua incantata naïveté – ha voluto credere alla favola bella dell’Amore Assoluto, doppia maiuscola, con Lui, che non ha nome ma incombe su tutto il romanzo fino all’epilogo.

Una casa speciale

La casa, l’elemento esplicitamente autobiografico del libro, non è una casa qualunque. È il buen retiro nella pineta di Roccamare a Castiglione della Pescaia, in cui Carlotta Fruttero – qui al suo primo romanzo dopo La mia vita con papà, edito sempre da Mondadori – ha vissuto insieme al padre Carlo in quel tratto benedetto del litorale maremmano che ha fatto da sfondo a tanta letteratura novecentesca, da Palomar di Calvino a Enigma in luogo di mare degli stessi Fruttero e Lucentini che sempre qui, all’ombra dei pini marittimi affacciati sul Tirreno, scrissero La donna della domenica.

Parlando della casa, della sua centralità nel passato e nel presente della storia familiare, la voce di Alice e quella di Carlotta Fruttero coincidono: “porto di mare” come l’ha voluta il padre (che nel romanzo non è uno scrittore ma un regista), “porto sicuro” come l’ha vissuta la figlia, la villa viene definita “un capitale umano di inestimabile valore”.

Non solo nell’accezione letterale che rimarca il valore affettivo prima ancora che finanziario della dimora paterna, ma anche nella definizione tecnica di capitale umano coniata dai manuali di economia, cioè quell’insieme di capacità, competenze e abilità acquisite da un individuo nel corso della vita. Senza quella casa, senza le esperienze e le relazioni di cui si è fatta cornice, la protagonista del libro non sarebbe mai stata la stessa, cosa che con ogni probabilità vale anche per l’autrice.

Storia di Alice

Tutto il resto, invece, è la storia di Alice, moglie e madre immersa nel placido scorrere di una vita borghese (“ordinata” è l’aggettivo che ricorre più spesso a indicare quel tran-tran ben rodato ma forse noioso) che prima resiste e poi cede a quella che sembrava una travolgente avventura romantica con Lui, l’uomo inaffidabile dal passato opaco ma anche “l’uomo che ti insegna ad amare i fortunali”, perché dei fulmini che si abbattono sulla spiaggia vede non tanto il pericolo quanto la perturbante bellezza.

L’avventura si consolida in una relazione di lungo corso che sembra procedere spedita verso il lieto fine, salvo poi compiere – quando? Sul momento preciso, Alice si arrovellerà a lungo – uno scarto laterale dapprima impercettibile, poi sempre più ampio fino a deragliare irrimediabilmente verso l’inesorabile dramma. È la storia di una caduta libera nel gorgo di una relazione morbosa che rientra in pieno nel canone dell’amore tossico: dall’accanito love bombing di cui Alice è oggetto al bieco disegno manipolatorio di cui poi sarà vittima, dalla candida fiducia iniziale ai sospetti che via via prendono corpo, il romanzo racconta con precisione implacabile la progressione lenta ma fatale dell’inganno, il cerchio che si stringe, l’ingranaggio che stritola.

Come diavolo ha fatto a cascarci?, si chiede il lettore; quello stesso lettore che chiuderà il romanzo rabbrividendo: mioddio, ci sarei cascato anch’io. Perché l’ingenuità della protagonista non basta, e di certo non è, in questa storia, la principale indiziata. Sì, Alice si imputerà fin dalle prime pagine il reato di ignavia, il non aver saputo (o non aver voluto) vedere quei segnali che pure erano lì sotto i suoi occhi; e lo stesso titolo di degregoriana memoria la cristallizza nel suo ultimo momento di trasognata spensieratezza, con quell’ancora a indicare che ben presto Alice saprà, e che per il resto della vita dovrà fare i conti, purtroppo non solo quelli economici, con un destino sconvolto per sempre.

Ma il punto è un altro: se il piano ordito da Lui funziona, è perché viene orchestrato alla perfezione. Le bugie vengono somministrate a piccole dosi, in un lento processo di mitridatizzazione che, se non rende Alice immune al veleno, di certo la rende sempre più cieca ai suoi effetti; le spiegazioni appaiono credibili, suffragate come sono da un ampio corollario di false prove, e la speranza che vada ancora tutto bene non è il banale whishful thinking di un’anima semplice, la bugia pietosa che ci si racconta per tirare avanti, ma una possibilità concreta: sembra davvero tutto a posto – tutto in ordine, come nella vita precedente di Alice – anche mentre il Paese delle Meraviglie scricchiola fin dalle fondamenta e lentamente si sgretola.

La vertiginosa caduta finale

Arriva, ineludibile e crudele, il momento della consapevolezza: no, non va tutto bene, il castello di carte crolla pezzo per pezzo e stavolta chiudere gli occhi è impossibile. Ma anche al risveglio, Alice non sa ancora a che punto è la notte: né lei né il lettore hanno chiare le proporzioni di quanto sta per accadere. Lo racconterà nella seconda e nella terza parte Carlotta Fruttero, arrogandosi quello che forse è il diritto supremo del narratore: intervenire sullo scorrere del tempo, in questo caso imprimendo una lunga frenata al presente del romanzo.

Se, nel primo terzo del libro, scorrono via veloci anni e generazioni intervallando la storia di Alice e quella della sua famiglia (e qui ancora, nella gioventù raminga del padre in giro per l’Europa che poi approda a Parigi, si intravede la figura di Carlo Fruttero); tutto il resto del romanzo si concentra in un’unica giornata, lunga e vorticosa come lo sono i momenti fatali: al dilatarsi del tempo corrisponde un ritmo sempre più serrato che conduce alla vertiginosa caduta finale.

Senza artifici retorici, senza nessuna concessione al melodramma né, per dirla con Carver, trucchi da quattro soldi, il cerchio si chiude con la voce piana e pacata di cui Fruttero ha scelto di dotare la sua protagonista fin dall’inizio: anche nell’ora più buia la priorità di Alice sarà “non perdere la testa, non fare sceneggiate, mantenere dignità e controllo”.

E il registro non può che seguire, senza eccedere in inutili saturazioni tragiche: com’è bastato fin qui il racconto semplice e accurato della trappola in cui Alice cade, basterà svelarne a posteriori gli ultimi retroscena per liberarla dall’apnea, farla idealmente riemergere dall’immagine di copertina e restituirla all’atto puro e semplice di respirare.

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