Ci sono storie collettive taciute che per emergere hanno bisogno di una voce. È il caso di Jessica Zucker, psicoterapeuta di Los Angeles specializzata in salute mentale materna e riproduttiva che, partendo dal proprio vissuto, ha unito tante persone legate da un’esperienza comune: l’aborto spontaneo. Un avvenimento a cui, secondo Zucker, nessuno ti prepara.

Per questo nel 2014 ha dato vita alla campagna #Ihadamiscarriage, ha pubblicato articoli sul New York Times, aperto un profilo Instagram che oggi ha più di 415mila follower e scritto un memoir, Rompere il silenzio. Come ho affrontato un aborto spontaneo (Il margine, 2024). Voleva creare uno spazio sicuro per altre persone che avevano vissuto dolorosamente un aborto, mettendo in discussione la reticenza che circonda la perdita di un bambino non ancora nato.

Non tutte le persone vivono la morte stesso modo, Jessica Zucker lo sottolinea più volte. E non esiste un modo giusto o sbagliato di affrontarla. C’è chi prova sollievo, chi indifferenza e chi invece attraversa una fase di lutto. «Non dovremmo mai cercare di aggirarlo o scansarlo del tutto. Ciò che possiamo fare – scrive l’autrice – è esistere al suo interno, insieme». Anche Jessica, nonostante gli anni di colloqui con persone che facevano difficoltà ad avere figli o che attraversavano una depressione post-partum, si è trovata priva degli strumenti utili per vivere la perdita della sua bambina, Olive.

La colpa, secondo lei, è da imputare a una società che non parla di aborto spontaneo, delle cause, delle conseguenze e dei modi per affrontarlo. Ma non è così da sempre, c’è stato un periodo in cui nel mondo occidentale «non esistevano metodi di contraccezione e la pratica dell’aborto era illegale, e dunque pericolosa. Era essenziale non restare in silenzio su questo argomento».

Negli anni Settanta, con la nascita delle moderne tendenze sanitarie, l’aborto è diventato di interesse pubblico. In questo periodo «le donne iniziarono a pretendere delle risposte quando notarono una correlazione fra le perdite di gravidanza e altri rischi per la salute come l’uso di pesticidi e le condizioni di vita dannose».

Nascondere

Con gli anni però si è fatto avanti il silenzio, “imposto” anche a livello medico: «È pratica comune suggerire alle donne di aspettare a rivelare pubblicamente la gravidanza fino a essere fuori pericolo». Ma attendere fino al secondo trimestre significa che «se la buona notizia diventerà cattiva, non avrai bisogno di divulgarla». Ed è così che molte persone si trovano quasi da sole ad affrontare una situazione che in molti casi dovrebbe essere vissuta con qualcuno accanto.

Anche per questa tendenza a “nascondere” è comune pensare che sia raro avere un aborto spontaneo. Zucker nel libro riporta che «in un sondaggio, metà degli intervistati credeva che riguardasse meno del cinque per cento delle gravidanze» o che la causa fosse da imputare a una disattenzione della madre che si era inavvertitamente sottoposta a carichi di stress, aveva alzato pesi o tenuto uno stile di vita non salutare.

Non è facile trovare dati attendibili sugli aborti spontanei in Italia. Un’indicazione arriva dall’Istat, secondo cui, nel 2022, 43.018 persone sono state dimesse da una struttura ospedaliera in seguito a un aborto spontaneo. I numeri che riporta Zucker riferiti agli Stati Uniti sono più precisi: una persona su quattro subisce un aborto spontaneo, una su cento natimortalità (secondo l’Oms per «nato morto» si intendono i nati senza segni vitali con peso alla nascita di un chilo o più con un’età gestazionale pari ad almeno 28 settimane ndr) e una su otto infertilità.

Accanto al silenzio ci sono lo stigma e la vergogna, che insieme formano quella che l’esperta chiama «la triade stridente». Agiscono quasi sempre insieme, «impedendo il dialogo e la vicinanza, dunque isolano coloro che ne fanno esperienza».

È proprio l’isolamento una delle sensazioni più comuni descritte dall’autrice, che racconta come nemmeno un’amica storica o la madre siano state capaci di capire le sue emozioni: «Si resta sbigottite quando ci si accorge di aver sopravvalutato le capacità dei cari di mostrare tatto ed empatia. Per qualche motivo, è come se dovessero essere gli altri a determinare i tempi e il corso che dovrà avere il lutto, in base alla gravità che attribuiscono alla situazione, anche se in genere non hanno provato in prima persona cosa significhi».

È dalla consapevolezza dell’isolamento forzato che nasce il desiderio di Zucker di scrivere per far sapere ad altre persone che non sono sole, che il dolore dopo un aborto spontaneo è una condizione più diffusa di ciò che si pensa. In un viaggio introspettivo – ma che attinge anche alle esperienze di alcune pazienti e membri della community – l’autrice parla dei suoi pensieri più intimi, della lontananza percepita dal marito, della sua condizione mentale e del disturbo postraumatico da stress diagnosticato in seguito alla perdita di Olive.

Stupri

La rinascita

Ma Rompere il silenzio non è solo sofferenza. Il libro rappresenta anche un percorso di rinascita, che per Jessica è arrivato grazie alla terapia, al tempo, ai farmaci e a un viaggio in Giappone. In mezzo c’è stata un’altra gravidanza. «Io e Jason (il marito ndr) eravamo tanto sollevati quanto impietriti. Per quanto mi consolasse essere nuovamente incinta, dentro di me sentivo il peso della possibilità. Sapevo fin troppo bene che quello che mi era accaduto da poco poteva teoricamente ricapitare; perciò, passavo dalla gratitudine alla paura e viceversa».

Qualche mese dopo è arrivata Noa Raye, quella che Jessica ha descritto come una «bambina arcobaleno» perché nata dopo un periodo di sofferenza causato dalla perdita. Ma quella felicità non è bastata a fermare le ansie dentro di lei. «Il lutto non si dissolve da un giorno all’altro, e allo stesso modo l’amore immenso per chi è al sicuro fra le nostre braccia non basta a sostituire i sentimenti per chi abbiamo perso. La vita non sostituisce la morte».

È stato un viaggio in Giappone a rappresentare un punto di svolta. Al tempio Zojoji, a Tokyo, si è immersa nel Giardino dei bambini mai nati, un luogo in cui riecheggia una cultura «dotata di un rituale di guarigione per questo tipo di lutto». E nuovamente in lei si è fatto avanti il desiderio di vivere in un clima «in cui il lutto esiste allo scoperto, accessibile a tutti: non solo un tormento che ti lacera e ti logora dall’interno, dentro i confini del tuo corpo». Ed è per questo che Rompere il silenzio non è un libro per chi prova dolore in seguito a un aborto. O meglio, non solo. È un libro per chiunque. Per chi soffre di depressione post-partum o di attacchi di ansia, per chi desidera figli ma non riesce ad averli, per chi si affida a metodi di procreazione medicalmente assistita o all’adozione.

Ma anche per coloro che provano sollievo, non vogliono figli o decidono di ricorrere un’interruzione volontaria di gravidanza. Questo libro non vuole accompagnare solo chi queste esperienze le vive in prima persona, ma è anche una linea guida per sapere come comportarsi quando quella situazione la attraversa qualcun altro. In questo modo la morte non sarà più un tabù e chiunque potrà vivere i propri sentimenti – di gioia o dolore che siano – alla luce del sole.

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