Per Albertina Soliani il territorio «si trasforma anche grazie agli stranieri che ci lavorano». «Il caporalato è intollerabile in uno stato di diritto, serve la reazione di tutta la società civile»
Il paesaggio è in continua trasformazione, contaminato da chi lo abita. Le migrazioni umane hanno sempre interagito con i territori, quelli di partenza e di destinazione, ed è questa la relazione che la sedicesima edizione della Scuola di paesaggio «Emilio Sereni», che si conclude il 31 agosto, ha deciso di indagare. Intitolata al più importante storico del paesaggio agrario italiano, la scuola è ospitata da Casa Cervi, a Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, la casa museo dei sette fratelli trucidati dai fascisti nel 1943.
Le campagne italiane hanno infatti vissuto processi di abbandono, ma anche esperienze di ritorno e ripopolamento, come dimostra l’esempio positivo di accoglienza del comune di Riace. «Ho disperatamente tentato di fare qualcosa in un luogo abbandonato, uno dei tanti paesini del profondo sud, dove le comunità rurali rischiano di diventare “fantasma”», dice Mimmo Lucano nel suo intervento di conclusione della scuola. Senza canali di ingresso regolari, l’incontro tra la migrazione e la campagna ancora oggi però produce sfruttamento.
Una subalternità «intollerabile in uno stato di diritto», dice invece a Domani Albertina Soliani, ex senatrice e presidente dell’Istituto Alcide Cervi. Il territorio dove sorge il luogo simbolo della Resistenza è cambiato, dal 1943 ad oggi, e anche lo spostarsi da un comune all’altro della famiglia Cervi, racconta Soliani, veniva definito «immigrazione», questo significa che «siamo tutti migranti».
Perché approfondire il rapporto tra paesaggio e migrazioni?
Abbiamo capito che il paesaggio agrario italiano si trasforma anche per la presenza delle persone migranti che ci lavorano. Penso ad esempio alla comunità sikh che vive l’area Padana: cominciano con grande precarietà, ma poi con le loro famiglie diventano di fatto cittadini della comunità. È un dato di fatto che la cittadinanza è strutturalmente legata alla vita nel territorio. Lo cambia e quindi anche la società e la politica devono camminare di conseguenza. E ci siamo trovati nel pieno del dibattito politico sullo ius scholae. L’articolo 9 della Costituzione tutela il paesaggio e i migranti che lo vivono.
In che modo i flussi migratori trasformano il paesaggio sociale e culturale?
Sono processi molto lunghi, però siamo in ritardo nel considerare strutturale questo tema. L’Europa sta vivendo un periodo di denatalità e quindi non si vede perché non affronti in termini positivi l’integrazione e la presenza di migranti.
Quello con la campagna però è un incontro che ancora oggi produce sfruttamento.
Una subalternità delle persone ai padroni o altre strutture che, in uno stato di diritto, è intollerabile. Sindacati, forze dell’ordine e magistratura cercano di affrontare questo problema. Ma c’è bisogno della società civile che dichiari di non tollerare questa situazione di disumanità.
Può esserci un altro tipo di rapporto?
Nel museo di casa Cervi, nella stalla, c’è ancora un telaio, che veniva usato dalle donne quando la sera si raccontava una storia. Ci sono classi che vengono a Casa Cervi con studenti provenienti da altri paesi, come dall’India, dal Punjab. Le ragazze indiane raccontano che anche la loro nonna utilizzava quel telaio, riconoscono qui i legami e i segni di un modo di lavorare la terra. La grande sfida è quella di vivere insieme, conoscersi, sapersi rispettare. Ma soprattutto, con la Costituzione alla mano, garantire a chi viene a lavorare in Italia i diritti dei cittadini.
Ci sono storie positive di incontro tra migrazione e territorio?
L’inclusione sociale dei migranti dovrebbe essere vista come una sfida sociale positiva, perché dà energie e forza a un paese invecchiato, con scarsa prospettiva di farcela da solo. Giuseppe Barbera dell’università di Palermo, nella sua lectio magistralis, ci ha descritto la Sicilia dell’incontro delle culture del Mediterraneo, specialmente araba, a partire dalle piante, dai giardini, dai frutti. L’Europa è stata un grande incontro di culture e di popoli che si sono scambiati continuamente.
Come si inserisce questa edizione nel territorio di casa Cervi?
Proprio ieri abbiamo scoperto nell’archivio della famiglia Cervi che, sulla pagina del registro anagrafico del comune di Gattatico, datato il 13 novembre 1934, c’è un elenco dei membri della famiglia che dal comune di Campegine, dove erano mezzadri, si erano trasferiti nel campi rossi, a Gattatico, diventando affittuari, in un qualche modo con maggiore libertà. Quella pagina è intitolata “immigrazione”: soltanto perché c’era San Martino nel mezzo e si andava in un altro comune, si era degli immigrati. Quindi siamo tutti immigrati. La vita chiama al cambiamento continuo, ed è la sua grandezza e la sua forza.
Concluderemo la scuola con la rappresentazione dell’opera “La Bandiera del Mondo 1+1=3” di Michelangelo Pistoletto e Angelo Savarese, che porta circa 200 bandiere raggruppate nella forma che rappresenta appunto l’idea di pace.
Una rappresentazione molto in sintonia con il mappamondo di casa Cervi, che si trova al centro di una delle due stalle. Quando i Cervi andarono a comprare il primo trattore della zona, chi glielo ha venduto li ha invitati a scegliere anche tra alcuni oggetti. Hanno scelto il mappamondo e son tornati a casa, portandolo sul trattore. È il simbolo di casa Cervi ed è quasi una profezia, cioè il mondo sempre davanti a te con i suoi dolori, i suoi lutti, le sue guerre, ma sempre con la chiamata alla pace, a riunire le persone e i popoli.
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