Un modo per descrivere una civiltà è osservarla dal punto di vista della vergogna. Dimmi di cosa ti vergogni, e ti dirò in che civiltà sei. Un aspetto specifico della nostra civiltà è che le cose di cui ci vergogniamo spesso vanno a costituire le fondamenta di un sistema di speculazione economica. C’è qualcosa che lega la vergogna e le opportunità capitalistiche. Ma facciamo un passo indietro.

La vergogna nasce nelle comunità umane come strumento di controllo e di difesa il cui scopo è la sopravvivenza non tanto dell’individuo, quanto della società. Serve a rafforzare la conformità. Se un comportamento è considerato riprovevole e stigmatizzato, le persone avranno un incentivo naturale a evitarlo, e saranno messe alla berlina se non ci riusciranno.

La vergogna, naturalmente, è una brutta sensazione, ma talvolta serve al mantenimento di alcuni valori irrinunciabili. Per esempio, se dichiararsi nazisti è fonte di vergogna questo aiuta a tenere sotto controllo certi bassi istinti. Anche se, va detto, talvolta quegli istinti continuano a vivere e a ribollire sotto la superficie, fino al giorno in cui trovano nuovamente le condizioni per uscire allo scoperto con terribile orgoglio. Purtroppo lo sappiamo.

Il corpo 

Fra le più grandi fonti di vergogna del mondo occidentale contemporaneo non c’è, comunque sia, il tabù politico o ideologico. Molti tabù di quel genere, anzi, stanno cadendo. Al centro della vergogna contemporanea c’è invece, ben saldo, l’aspetto fisico: la bellezza, il peso corporeo, la giovinezza eterna. Come faccio a dirlo? Come faccio a essere così sicura che essere “brutti e vecchi” sia un tabù più forte dell’essere nazisti?

Be’, ne sono sicura perché nella nostra civiltà la dimensione dei tabù si misura appunto guardando se qualcuno ci ha costruito intorno un settore di attività economica, e quanto grande. Il settore delle diete, della bellezza e della giovinezza eterna è assai fiorente, si ciba del nostro sentirci inadeguati. Il settore dei corsi di riabilitazione per nazisti non mi pare si sia mai sviluppato granché.

Su questi temi è uscito da poco in Italia un libro: L’era dell’umiliazione di Cathy O’Neil (edito da Utet). Mi sembra interessante richiamare anche il titolo originale in inglese, “The shame machine”, la macchina della vergogna. La macchina nel senso di un meccanismo dentro il quale entra una materia prima ed esce un prodotto finito. La materia prima siamo noi, con le nostre debolezze, il prodotto in uscita è una vergogna senza fine.

Cathy O’Neil è una matematica, dunque è una persona con una solida formazione scientifica, ma qui si dedica a qualcosa di più viscerale, e anche di più personale, dato che soffre da sempre dei pregiudizi legati al fatto di avere un corpo non conforme, una condizione che ha provato a superare in vari modi, con diete rigorose sin dalla più tenera età e sviluppando un grande dolore emotivo.

Isolati e sfruttati 

La vergogna è anzitutto un’esperienza che ci isola, che ci separa dal resto della società. Una volta isolati, soli, siamo pronti per essere sfruttati dalla macchina. L’aspetto fisico, ma anche la povertà (altro esempio) è fonte di vergogna. Si dirà: ma chi è povero non può certo comprarsi prodotti per non esserlo, dunque non può essere parte di un sistema di profitto.

In realtà la vergogna in quel caso opera ovviamente come meccanismo di preservazione del sistema, nelle sue forme più becere. Se la povertà è fonte di vergogna, le persone povere difficilmente troveranno la forza di ribellarsi (e si continuerà a trarre profitto dalla loro debolezza). La società potrà disinteressarsi dei loro problemi, se riesce a dimostrare che i poveri sono artefici del proprio destino. Perché non ti sei impegnato di più per uscire dalla tua condizione?

Il complesso industriale della vergogna funziona bene: le aziende e le infrastrutture sociali ci convincono di avere il potere di perfezionare le nostre vite, solo per incolparci quando le loro soluzioni falliscono. Non sei capace! So che può sembrare tutto molto americano, ma questa cultura ormai permea anche la nostra. La colpa, la forza di volontà, il sacrificio. Il tuo fallimento. Anche la rete si fonda sulla capacità di creare tensioni e prospera sulle gogne digitali, sul desiderio di apparire e su altri meccanismi che fanno leva sui bassi istinti e generano traffico.

Oggi più che mai le persone hanno paura di perdere quello che hanno. Forse hanno più paure che desideri, lo vediamo in politica. In assenza di un cambiamento culturale, l’umiliazione prospererà sempre di più in maniera discutibile, producendo nuove mortificazioni e forme di sorveglianza.


L’era dell’umiliazione: come le aziende, i social media e gli algoritmi alimentano la macchina della vergogna che ci domina (Utet 2024, pp. 250, euro 22) è un libro di Cathy O’Neill

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