L’impressione del conferenziere è questa.

Che dopo avere scritto un numero consistente di romanzi, di racconti, di saggi, l’uno diverso dall’altro, perché a questo lo spingeva la sua inarrivabile camaleontica attitudine, lo Scrittore abbia avvertito una crepa, un’incrinatura. L’esuberante fiducia  dell’esordiente, cui un maestro amico aveva detto «Tu hai una grande ricchezza di parole, come Shakespeare giovane», ecco, quella fiducia era stata messa alla prova. Ma non è proprio così che dev’essere? (la fiducia in un gesto non può essere incondizionata: rischia di diventare ottusa)

Va bene, d’accordo, sei uno scrittore importante, sei riuscito a fare approdare le tue storie dove non supponevi potessero giungere, e tuttavia: è il dubbio, è la domanda, la perplessità ironica, che ci salva da una monolitica e inaridente conferma di noi stessi.

Il romanzo impossibile

Così, dopo avere fatto osservare a un ragazzino i pantaloni alla zuava dei grandi che combattono, sputano per terra, fanno l’amore, qualche volta piangono; e dopo avere fatto salire su un albero un intemperante giovane aristocratico, avergli fatto saldare un patto di sangue con la sua stessa anima di ribelle, di rivoluzionario, di estremista della coerenza (ebbene, signori, se una volta si annuncia il rifiuto di non mangiare lumache, le lumache non vanno mangiate mai più); e dopo avere fatto traversare a uno scrutatore, in senso letterale, in senso di ufficio civile, un inferno terrestre di disperati e deformi, dopo averlo portato a concludere, sotto un cielo grigio di Torino che preme sui davanzali, che l’amore non ha confini “se non quelli che gli diamo”; dopo avere spedito gli emissari della propria stessa curiosità nello spazio intergalattico, o un Marco Polo astratto come una funzione matematica a visitare città che non esistono ma che potrebbero esistere, città che sono sogni e incubi di città, che sono città contenute da qualunque effettiva abitabile e terrificante Città, dopo questo e altro, lo Scrittore ha pensato che bisognasse tentare un romanzo impossibile, fatto di romanzi possibili ma incompiuti, un romanzo che fosse nutrito dalla fiducia romantica nel gesto – scrivere, raccontare una storia – e che allo stesso tempo mostrasse la corda, l’impossibilità di crederci davvero e fino in fondo.

Una volta che hai scritto tutto, resta la domanda che rimbalza sulla fronte del Lettore, eletto a protagonista, della Lettrice, eletta a protagonista pure lei, ed è una domanda radicale di senso – quelle che i più tendono a scacciare via dal naso come le mosche stordite di fine estate.

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Sull’orlo del fallimento

Ciò che ora al conferenziere appare lampante (e perfino commovente) di questo estenuante esercizio di descrizione è che nasce sul crepaccio del fallimento, nella luce cerea di un tardo pomeriggio. Poco prima del tramonto.

Lo Scrittore mette in discussione, senza darlo troppo a vedere, il proprio stesso statuto di scrivente/scrittore: ho le parole, sembra dire, sì, ma che altro?

Il taciturno Personaggio, il balbuziente Scrittore, posti di fronte al vastissimo inesauribile materiale di realtà che chiamiamo mondo fanno un passo avanti e dieci indietro.

Allo zoo di Barcellona, osservando un gorilla albino giocare con un vecchio copertone, il Personaggio, il signor Palomar, fra sé se sé, conclude: «Tutti rigiriamo fra le mani un vecchio copertone mediante il quale vorremmo raggiungere il senso ultimo a cui le parole non giungono».

Il conferenziere rilegge: «A cui le parole “non” giungono».

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Un vecchio copertone! La scrittura, il linguaggio, ecco qua: un vecchio copertone.

Nelle ultime pagine dell’ultimo libro dello Scrittore, il filo del ragionamento filosofico si ingarbuglia, si spezza, si ricompone in una serie di assurdi logici: il mondo senza i nostri occhi, sguardo che viene dal di fuori/sguardo che viene da dentro, l’Io pensato come centro che ha centro in ogni punto, eccetera.                                                                                      

Ma che cosa sta inseguendo lo Scrittore al tramonto? Una giusta e perciò forse impossibile distanza? Un “sublime distacco”? O perfino “il sollievo d’essere morto”? L’ultima frase del libro, dopo un ulteriore paradosso («decide che si metterà a scrivere ogni istante della sua vita»), suona letteralmente definitiva: «In quel momento muore».

Il conferenziere rilegge: «Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante – pensa Palomar – e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà di essere morto. In quel momento muore».

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Al  Personaggio  accade  nell’ultima  riga  dell’ultima  pagina dell’ultimo libro, allo Scrittore di lì a un paio d’anni.

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Imparare a essere morto

Resta il vecchio copertone, sì; e resta un involontario modello di parlante-scrivente-umano – sanamente perplesso, quando non scettico, sul potere dello strumento che la specie a cui appartiene. Ecco, vede, vorrebbe ribadire il conferenziere al signore che alla fine della conferenza aveva detto scusi come se dovesse alzarsi, si dà il caso che vi sia in molti soggetti pluripremiati e riconosciuti per il loro talento una forma di inquietudine se non autodistruttiva di sicuro auto-sabotante che li porta a mettersi in discussione, a mettere in discussione tutto, a spaccare il famoso capello in quattro, a non essere mai convinti, mai appagati. L’impossibilità di crederci davvero e fino in fondo.

Il conferenziere, nella malinconia, ritrova l’entusiasmo. E cerca, sfoglia ancora, sottolinea, avanza, torna indietro. Gli piace un capitoletto del libro dedicato al “mordersi la lingua”. Pensa di nuovo al signore che alla fine della conferenza aveva detto scusi come se dovesse alzarsi.

Il Personaggio, ci dice lo Scrittore, ha preso l’abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualunque affermazione. «Buone occasioni per tacere non mancano mai». Silenzio vile? No. «In tempi di generale silenzio, il conformarsi al tacere dei più è certo colpevole». Ma «in tempi in cui tutti dicono troppo, l’importante non è tanto dire la cosa giusta, che comunque si perderebbe nell’inondazione, quanto il dirla partendo da premesse e implicando conseguenze che diano alla cosa detta il massimo valore».

La scelta è perciò necessariamente quella fra il parlare in continuazione e il non parlare mai? Un silenzio «può servire  a escludere certe parole oppure a tenerle in serbo perché possano essere usate in un’occasione migliore». E allora? Il conferenziere rilegge: «Il fatto è che lui più che affermare una sua verità vorrebbe fare delle domande, e capisce che nessuno ha voglia di uscire dai binari del proprio discorso per rispondere a domande che, venendo da un altro discorso, obbligherebbero a ripensare le stesse cose con altre parole, e magari a trovarsi in territori sconosciuti, lontani dai percorsi sicuri».

Ci arriva un segnale dallo spazio-tempo, pensa il conferenziere, c’è un ciao che dal 1983 raggiunge gli amici social di sette lustri dopo. Eccoci qua – scimmie che si aggrappano a un vecchio copertone, usato da «supporto tangibile per un farneticante discorso», una folla di gorilla dai modi spicci che hanno fretta, si fanno largo a gomitate, «senza guardarsi in faccia, tra alte mura spigolose e scrostate». E qualche signor Palomar, che vorrebbe essere amico dell’universo, si morde la lingua, fa un passo avanti e dieci indietro, aspetta, ascolta, contempla, tace; non intende «ostentare né competenze che non ha né incompetenze che non sono mai interessanti in sé».

E cerca di imparare a essere morto, «per vedere come va il mondo senza di lui».


Il testo è un estratto da Il giorno in cui la letteratura morì di Paolo Di Paolo, Tetra.

Il racconto è uscito nella quartina di maggio insieme a Luce di Elisa Ruotolo, Turiste della catastrofe di Ilaria Gaspari, Vite parallele e fantastiche di Pellegra Bongiovanni e Teresa Bandettini di Giulio Mozzi.

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