Il mondo giovanile europeo è tendenzialmente contrario al riarmo. Ma le voci che reclamano il recupero urgente di una “mentalità guerriera” sono sempre di più. Due libri (La guerra e la natura umana di Gianluca Sadun Bordoni e Fare la guerra con altri mezzi di Alfio Mastropaolo) aiutano a leggere questo momento storico
«Se l’Europa vuole evitare la guerra, deve prepararsi alla guerra»: è la frase, che diventerà forse storica, con cui Ursula von der Leyen ha annunciato qualche settimana fa il massiccio programma europeo di riarmo. Mentre le élite politiche cominciano a muoversi per dar corpo a questo programma, da varie parti si levano segnali di allarme: come può l’Italia riarmarsi se la Costituzione prevede che “ripudi la guerra”? A che serve riarmarsi se ormai i giovani non vogliono più saperne di guerra?
Perfino in paesi che con la guerra non hanno mai rotto, come la Russia, ogni volta che si annunciano nuove coscrizioni i giovani espatriano o si danno alla macchia. Le manifestazioni che si sono svolte in tutt’Europa in risposta al programma di riarmo parlano da sole: alimentato da decenni di battaglie pacifiste, il mondo giovanile è contro la guerra: non la vuole e ancora meno la vuol combattere.
I “guerrieri”
Dall’altro lato, crescono le voci che reclamano il recupero urgente di una “mentalità guerriera”. La più tonante è quella di Pete Hegseth, il rozzo segretario alla Difesa Usa, che ha nel curriculum accuse di molestie sessuali e alcolismo, a cui si aggiungono un passato di veterano e la stesura di libri nei cui titoli risuonano rumori di armi: si passa da Crociata americana a Guerrieri moderni, da Battaglia per la mente americana al più recente, Guerra ai guerrieri (War on Warriors).
Quest’ultimo è una incessante invettiva contro gli americani per aver perso lo «spirito guerriero», soprattutto a causa dell’ammissione di donne e trans nelle forze armate, e un’incitazione a recuperare lo «spirito guerriero» e allentare le regole di ingaggio, in modo che le azioni militari abbiano un incremento di «letalità» (sic). Non mancano le espressioni di fastidio per le norme internazionali create dopo la Seconda guerra mondiale per governare i conflitti armati, come la Convenzione di Ginevra.
Chi trova delirante un simile modo di pensare, e distopico il fatto che il termine “guerriero” sia ormai usuale al posto di “soldato”, non troverà conforto nei discorsi che il segretario della Nato Mark Rutte (ex primo ministro olandese), ormai platealmente trumpizzato, ha fatto a proposito del programma europeo di riarmo.
Secondo Rutte, è urgente un «cambiamento di mentalità verso la guerra» per evitare che i paesi dell’Ue siano impreparati ai rischi posti dalla Russia, così come occorre dare una «turbocarica» (sic) alle spese per la difesa per adattarle alla nuova situazione.
Libri per capire
In questa grezza prosa da film di Batman, o forse da propagandisti di armi letali, è difficile ritrovarsi. Invece del motto di von der Leyen, sarebbe più opportuno dire: «Se vuoi evitare la guerra, anzitutto studiala». La guerra è infatti tornata tra noi, non solo come evento che si abbatte su tutti gli angoli del Pianeta, ma come questione di dottrina e issue teorica.
In questo compito soccorrono due libri importanti particolarmente ben scritti, animati entrambi da un esplicito spirito hobbesiano (“Homo homini lupus”), che gettano luce con argomenti diversi sul fenomeno della guerra e il suo radicamento nella politica, nelle istituzioni e nella nostra stessa natura. Data la ricchezza di entrambi, sarò costretto a ridurre all’osso le molte idee che contengono.
Il primo è La guerra e la natura umana di Gianluca Sadun Bordoni (il Mulino, euro 29), che si propone di illustrare (è il sottotitolo) «le radici del disordine mondiale». Sadun Bordoni, professionalmente un filosofo del diritto, si muove con grande maestria tra le idee dei filosofi, la storia delle relazioni internazionali, la storia militare, l’antropologia storica e varie altre discipline, con una foltissima gamma di riferimenti e angolazioni.
La sua tesi centrale è la seguente: «La guerra è uno dei tratti profondi della natura umana», anche se la modernità occidentale ha preferito adottare il «dolce sogno» kantiano di una impossibile «pace perpetua». Perfino sui resti umani delle più antiche fasi dell’ominazione si ritrovano indizi di massacri, spiegabili solo come effetto di guerre. (Sadun Bordoni avanza l’interessante idea che anche lo sviluppo del linguaggio, permettendo «maggiore concertazione e coordinamento delle azioni», abbia contribuito a rendere mirata l’aggressività nella caccia e nella guerra.)
La storia intera sta a mostrare che la guerra «è comunque sempre con noi», quale che sia il motivo usato per scatenarla: conflitti etnici, lotte per il controllo delle risorse naturali, conflitti religiosi e dispute territoriali. Se la guerra è umana ab origine, è semmai la pace «un’invenzione moderna».
Il secondo libro è Fare la guerra con altri mezzi di Alfio Mastropaolo, insigne scienziato politico torinese (il Mulino, euro 34). È una serrata analisi di sociologia storica, anche questa fittissima di riferimenti storici e dottrinali, che, riprendendo nel titolo il celebre motto di von Clausewitz, esamina i modi che la politica e l’economia hanno inventato per fare guerra (e farsi la guerra) senza apparentemente lasciare vittime sul campo.
Secondo Mastropaolo, tutte le istituzioni più astratte e nobili sono in effetti strumenti per la presa del potere e del controllo da parte di gruppi organizzati. Lo stato, anche quando si presenta benefico, protettivo e terzo, coi suoi apparati gestisce di fatto «un ristretto numero di monopoli della coercizione».
Allo stesso modo, la rappresentanza politica, nata come espressione di democrazia, si è convertita in professione e in business, fino a creare le sue “imprese” (i partiti e i sindacati) per trarre benefici. Il mercato, infine, soprattutto nei nostri tempi di rampante neoliberismo multinazionale, esibisce senza posa i tratti di una guerra permanente.
Inutile dire che il trumpismo nella sua attuale forma pienamente dispiegata esemplifica con evidenza plastica molti dei tratti che sia Sadun Bordoni sia Mastropaolo ravvisano nella guerra: licenziamenti di massa, tagli di finanziamenti, odio contro le università, minacce, ritorsioni, ricatti, vendette personali, espulsioni, contrasto alla magistratura, insulti e propositi di annessione fanno tutti parte dell’arsenale, sintetizzato in un paio di raggelanti motti del trumpismo, come “Shock and awe” («Prendi di sorpresa e spaventa») e “Flood the zone” (“Allaga il territorio”).
Guerra permanente
Per completare l’orizzonte delineato da questi due libri, ne occorrerebbe un terzo da dedicarsi alla «cultura di guerra permanente» che domina una porzione importante della vita media contemporanea. Con il contributo essenziale dei social media e della rete, la modernità ha infatti rimesso in onore il senso del conflitto ininterrotto.
Da un lato stanno le guerre in corso, a bassa e ad alta intensità, che sono oggi (secondo il Global Peace Index) ben 56, il numero più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale, e coinvolgono direttamente o indirettamente almeno 92 Paesi (sui circa 250 esistenti). Tra le regioni più colpite, il Medio Oriente, l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale.
Ma alle guerre “in grande” vanno aggiunte le mille forme di guerre “in piccolo”. Autentica invenzione moderna, le guerre “in piccolo” contrappongono persone e gruppi: baby gang, coltelli o armi in tasca, challenge e provocazioni, giochi pericolosi, stupri di gruppo, bravate criminali... Se le guerre in grande derivano dallo scontro dei macrosistemi analizzati da Mastropaolo, quelle in piccolo crescono e si nutrono nel malsano brodo di violenza creato dalla fusione del mondo mediatico col mondo reale.
Sorprende, per esempio, vedere quanti dei film e serie dei potentati dello streaming (Netflix, Prime, Paramount ecc.) si basino su storie di violenza. Nelle loro trame non si contano le adolescenti violentate e uccise, gli ammazzamenti con tecniche estreme, i massacri di gruppo, le storie di killer, le autopsie, le mutilazioni e gli sventramenti portati sotto gli occhi di tutti.
Nella miniserie televisiva Adolescence, che sta creando discussioni in vari paesi, si raccolgono come in un manuale le forme di microviolenza tipica delle guerre “in piccolo”. Tutto inizia con una foto intima che Katie manda via Instagram a un’amica. L’immagine diventa virale nella scuola e risveglia un’ondata di odio social contro le donne.
Il tredicenne Jamie, umiliato per essere stato rifiutato da Katie e quindi deriso su Instagram, è vittima anche lui della spirale di odio misogino e la uccide a coltellate. I temi estremi ci sono tutti: il cyberbullismo, la “maschiosfera”, gli adolescenti col coltello in tasca, l’indifferenza dei genitori o la loro incapacità di controllo.
Come non sospettare che le guerre in grande siano la versione ingigantita e mortifera di quelle in piccolo, e che la loro base comune sia la propensione umana alla violenza? E come non temere che le une e le altre siano politicamente incontrollabili?
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