- Il libro pubblicato da Enzo Bianchi (l’ex priore di Bose) dal Mulino, Che cosa c’è di là, si sforza di dare una risposta, da credente, alla domanda sulla vita futura che tutti ci poniamo, ma non va oltre alcune vedute vaghe e indefinite.
- Scartata come d’obbligo la soluzione della reincarnazione, rimangono quella di un paradiso troppo umano o quella di una fusione nella vita cosmica.
- Ma cosa cambia, per la vita presente, credere o non nell’al di là? Se si prende alla lettera Bianchi, ben poco, anzi proprio nulla.
Che cosa c’è di là: ecco un titolo che dovrebbe indurre chiunque a correre a comprare questo libro (è di Enzo Bianchi, l’ex-priore di Bose, ed è appena uscito dal Mulino).
Chi, infatti, non desidererebbe avere notizie da quello che Amleto, nel suo monologo più famoso, chiamava «il paese giammai scoperto, dai cui confini nessun viaggiatore ritorna»? Sapere se ci attende un’altra vita, e come sarà?
E chi, se non un credente, un cristiano, per il quale la resurrezione (di Cristo, ma anche la propria), dovrebbe esser una certezza, potrebbe darci una risposta?
Il pensiero della sopravvivenza dopo la morte è comunque un pensiero dolce, consolante, anche perché tutti, senza confessarselo, si immaginano l’altra vita migliore di questa.
Il problema è che non solo lo scettico, ma anche chi vorrebbe credere, se poco poco cerca di andare oltre un’idea vaga e indefinita di vita che non si interrompe, se cerca di dare un qualche contorno alla vita futura, di immaginarsela, si smarrisce. Il concetto gli si sfalda tra le mani, le immagini perdono ogni chiarezza.
Ma siamo sicuri che a Bianchi non accada niente di simile? Per pensare veramente il pensiero di una seconda vita (che non sia quella virtuale che ci promette il Metaverso) ci vorrebbe una immaginazione metafisica che non sembra più alla portata della fede esangue e urbanizzata del cristianesimo di oggi.
Così ci sia aggira tra vedute assestate, ma che rifiutano di essere pensate fino in fondo.
Un paradiso umano, troppo umano
Di tutti i modi di immaginare la vita futura Bianchi, e con lui il cristianesimo in genere, sembra rifiutarne decisamente solo uno, che è presente invece in molte concezioni religiose e in molte filosofie, ed è l’idea della reincarnazione.
Un’idea forse in sé non più plausibile di altre, ma che ha dalla sua parte due vantaggi non piccoli che la rendono almeno più coerente.
In primo luogo, quello di dare una risposta non solo al niente che ci attende, ma anche a quello dal quale proveniamo.
È singolare, infatti, che ci agiti tantissimo il pensiero che potremmo non essere più, mentre non ci inquieta per nulla pensare che prima di nascere non siamo esistiti, e rispetto a questo paradosso la reincarnazione è una buona risposta.
L’altro vantaggio, almeno in alcune credenze, è che la reincarnazione non esclude per principio dall’idea di sopravvivenza gli altri animali, che la visione fortemente antropocentrica dei monoteismi relega nell’inferiorità anche post mortem.
Molto più aperto si mostra Bianchi verso altre vedute, che pure a rigore dovrebbero essere persino meno accettabili per il cristiano. Per esempio, a pagina 67 Bianchi afferma che Cristo ci attende di là dalla morte per farci entrare «in comunione con la vita cosmica».
E qui francamente non capiamo perché ci voglia un intercessore così potente per fare accadere quello che indubitabilmente accadrà. Sebbene anche a questo pensiamo raramente o forse mai, pure dovremmo sapere che, per quanti dubbi abbiamo sulla sopravvivenza della vita cosciente, non ne dovremmo avere circa la materia di cui siamo fatti, i cui elementi entreranno infallibilmente nel «circolo della vita cosmica».
Lo ha spiegato benissimo Schopenhauer, che proprio nella materia identificava «l’indistruttibilità della nostra sostanza in sé».
Certo, si tratterà di un’esistenza ben diversa da quella di una vita personale cosciente. Ma quest’ultima, come pensarla dopo la morte?
Bianchi sembra di nuovo oscillare tra molte ipotesi diverse. Talora essa sembra assumere i contorni ingenui di una continuazione pura e semplice, priva di dolori, addirittura una tavolata fra amici che bevono vini di cui almeno qualcuno del Monferrato, al quale Bianchi è legato per nascita: preparare per gli amici «una tavola da festa e versare nei loro calici il vino immortale del Mediterraneo, un Ben Ryé di Pantelleria, il rosato del Mont Ventoux, la briosa barbera del Monferrato».
Questo paradiso in cui persino il vino è immortale ci sembra davvero umano, troppo umano.
Una passione inutile
Il fatto è che immaginare che cosa possa fare l’anima (o il “corpo glorioso”, dato che Bianchi, fedele in questo alla dottrina ufficiale della chiesa, crede alla resurrezione della carne) nell’ al di là è maledettamente difficile.
È nota l’osservazione che Dante ha avuto buon gioco ad immaginare l’inferno, perché la vita di qua gliene offriva amplissima materia, ma si è scontrato con mille difficoltà quando si è trattato di immaginare il paradiso.
Musiche celestiali, candide rose, canti di beati ma alla fine sembra che non si tratti di altro che della contemplazione di Dio.
Bianchi, dopo averci confessato che da bambino (solo da bambino?) tutto questo gli pareva soprattutto una noia mortale, se ne esce con una parola rivelatrice: «Un adagio dei padri della chiesa d’Oriente recita: l’uomo è un essere che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio».
Se si tratta di questo, lo ha detto anche Sartre, alla fine dell’Essere e il nulla: l’uomo è quell’essere che vuole farsi Dio. Solo che Sartre aggiunge, implacabilmente e coerentemente, che quell’idea è contraddittoria, e fa diventare l’uomo una passione inutile.
Bianchi, ed è un tratto che ce lo avvicina, non ostenta sicurezze. Parla dell’immortalità come una speranza, un lampo che talora attraversa i nostri pensieri e solo a tratti diventa una convinzione. Dice di non possedere certezze.
Questo, però, ci pare strano in un uomo che ha consacrato la vita a un’esistenza monastica (non scevra, tuttavia, da passioni terrene, a quanto pare), perché se fosse fino in fondo sincerità il dubbio dovrebbe avere un sottofondo tragico.
La monaca di una poesia di Rilke, quando le accade di dubitare, esclama: «Ma se nessuno ha dormito/accanto a me, tu mi salvi ?/La mia vita è lontana/ Gesù – dimmi – è con te? O la mia vita forse langue/ spezzata, e intanto piove/ e gela dentro, Gesù?».
Non vi fate sedurre
Lo stesso atteggiamento irenico e conciliante Bianchi lo manifesta rispetto al problema di cosa la fede nell’al di là comporti per l’al di qua, di cosa credere o no in una vita futura cambi in quella presente. Sembra quasi niente.
«Avere davanti a sé chiaro il limite dei giorni porta a viverli con grande consapevolezza, a gustare la vita con pienezza; vivere cioè il tempo che ci è dato il più possibile coinvolti nelle relazioni, negli affetti, nell’amore, nell’amicizia».
Appunto, è esattamente quello che pensa chi non crede in una vita di là da questa, e da questo pensiero trae una piccola ma sicura consolazione. E spesso la polemica del non credente si è rivolta contro coloro i quali pensano che la vita futura imponga sacrifici e rinunce nella vita presente, come troppo spesso è accaduto in nome delle religioni.
Ricordate i versi di Brecht: «Non vi fate sedurre che è poco, la vita. Bevetela a grandi sorsi. Non vi sarà bastata, quando dovrete andarvene».
Era un grido contro l’ascetismo, la penitenza, la rinuncia al mondo per paura dell’ala di là (mentre tanto spesso constatiamo che chi fa queste rinunce lo fa per paura di questo mondo, perché non riesce a viverlo liberamente, come accade per la rinuncia alla sessualità).
Sembra che Bianchi, in accordo con tendenze molto presenti nel cattolicesimo odierno, pensi che eliminando l’idea del sacrificio, della rinuncia, prendendo un atteggiamento positivo nei confronti della vita di qua si risolvano tutti i problemi, e diventi addirittura possibile ripetere il detto triviale in base al quale «si vive una volta sola», che a noi pareva la divisa e la difesa del gaudente più che del credente. Ma il problema non si risolve così.
Per esempio, è giusto sostenere che il dolore non può essere considerato un castigo e un’espiazione, e plaudiamo all’apertura che ne consegue alle cure palliative e forse anche all’eutanasia. Ma la domanda lacerante, l’interrogativo di Agostino, per il cristiano rimane: da dove viene il male?
Non basta dire che il dolore «non ha senso», bisogna spiegare come la fede possa conciliarsi con la sofferenza dell’innocente, altrimenti quello che resta in mano è una fede priva di ogni grandezza, ridotta a semplice palliativo della vita.
Però confessiamo che alla fine un po’ il libro di Enzo Bianchi ha consolato anche noi. Non ci è dispiaciuto affatto vedere che un uomo che ha consacrato la vita al servizio della fede e di Dio non è meno disarmato di un non credente di fronte al gran problema dell’ al di là.
E noi, oltre a non avere rinunciato a nulla a cui non volessimo rinunciare, non abbiamo nemmeno dovuto fare la fatica di credere cose che ci sembravano incredibili.
© Riproduzione riservata