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Il film di Marco Bellocchio ha riportato l'attenzione sul caso di Edgardo Mortara, un bimbo ebreo battezzato contro la volontà dei genitori. Fu strappato alla famiglia nel 1858 e educato nella fede cattolica sotto la protezione di Pio IX.
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Il caso Mortara suscitò una grande risonanza e proteste internazionali, ma il bambino non fu mai restituito alla sua famiglia. Cresciuto come prete, si dedicò alla conversione degli ebrei e morì in Belgio prima dell'invasione nazista.
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La vicenda del caso Mortara evidenzia gli aspetti disastrosi di un governo teocratico e sollevò critiche verso lo stato pontificio. Il papa, nonostante le pressioni, si attenne a quello che riteneva essere il suo dovere, perdendo supporto e simpatia popolare.
L’ultimo film di Marco Bellocchio ha riportato l’attenzione sul caso straziante di Edgardo Mortara, un bimbo ebreo. A 11 mesi il piccolo, all’insaputa dei genitori, era stato battezzato da una domestica cristiana che lo credeva in pericolo di vita.
Ma il fatto si venne a sapere e – in una Bologna ancora per poco inclusa nello stato pontificio – nel 1858, a sei anni, il bambino fu strappato alla famiglia per essere educato nella fede cattolica sotto la protezione di Pio IX, l’ultimo papa re.
L’insensato e crudele sequestro, eseguito dai gendarmi per ordine dell’inquisitore bolognese, ebbe un’enorme risonanza, ma a nulla valsero le proteste e le richieste internazionali perché venisse restituito alla famiglia.
Il caso Mortara
Cresciuto a Roma, a 16 anni Mortara entrò nell’ordine dei canonici regolari lateranensi e scelse di premettere al suo nome quello del pontefice, divenendo Pio Edgardo, e nel 1870 lasciò l’Italia. Ordinato prete, il religioso – di cui si può solo immaginare il tormento interiore – insegnò e predicò in diversi paesi europei, dedicandosi in particolare alla conversione degli ebrei e tornando per la prima volta in Italia solo nel 1891. Ritiratosi infine in Belgio, morì quasi novantenne, due mesi prima dell’invasione nazista del paese.
Clamoroso all’epoca, il caso Mortara fu quasi dimenticato, ma nel 1960 venne presentato in tutta la sua drammaticità da Gemma Volli su «La Rassegna Mensile di Israel» in uno studio ripubblicato da Giuntina.
Rilanciata da David Kertzer e da Daniele Scalise (con Il caso Mortara, ora riproposto da Mondadori, tra le fonti di Bellocchio), la storia si è prestata – quasi replicando le polemiche dell’epoca – ad apologie contrapposte.
Come quando Giulio Andreotti, contrastando nel 2000 le aspre critiche per l’imminente beatificazione di papa Mastai, scrisse che «crocifiggere» Pio IX per il caso Mortara era «più che ingiusto», perché riteneva l’episodio «un po’ poco» per «demonizzare la memoria» del pontefice.
Le conseguenze storiche
La vicenda, pur con tutta la sua complessità (che forse ha scoraggiato Spielberg dal progetto di farne un film), conferma l’inopportunità di far salire all’onore degli altari i papi, anche al di là di eventuali grandezze e meriti personali. E mostra con evidenza gli aspetti disastrosi e ottusi di un governo teocratico ormai insostenibile.
Il papa respinse le pressioni, ma il caso Mortara – ha scritto il gesuita Giacomo Martina, lo storico che in duemila pagine ha ricostruito il pontificato di Mastai evitando agiografie e apologie ma anche giudizi anacronistici – lasciò «in molti, anche cattolici, una penosa impressione e un forte distacco dal potere temporale».
Nel contesto polemico del processo unitario italiano il caso fu infatti al centro di una facile e riuscita campagna contro lo stato pontificio, non solo in Italia e in Inghilterra, ma nella stessa Francia di Napoleone III, che pure pochi anni prima aveva debellato la Repubblica romana e rimesso sul trono il papa re fuggito a Gaeta.
Ma il pontefice si attenne – sintetizza Martina – «a quello che egli riteneva suo preciso dovere, anche a costo di perdere la simpatia popolare, il suo prestigio ancora largamente superstite, e soprattutto l’appoggio francese a difesa del potere temporale», che agonizzava.
Conversioni forzate
Vi è anche una componente psicologica, perché nella sua intransigenza Pio IX si affezionò a quel bimbo come a un figlio, arrivando a considerare il rapimento in modo specularmente opposto alla realtà: «Grandi e piccoli mi vollero rapire questo bambino, accusandomi di essere un barbaro e uno spietato; essi rimpiangono i suoi genitori e non pensano che anch’io sono padre. Nessuno mi compatisce in mezzo alle dolorose prove, mentre in Russia mi si rapiscono violentemente tanti figli, i miei cari polacchi», allora oppressi dal dominio zarista ortodosso.
È questo di fatto l’epilogo di una politica di conversioni che per l’età moderna Anna Foa ha ricostruito con intelligenza storica in Ebrei in Europa (Laterza). Smentendo luoghi comuni diffusi ma infondati che dipingono un’azione indiscriminata e massiccia, la studiosa spiega come questa politica risulti invece «ambivalente e fallimentare» perché le conversioni «restano un fenomeno individuale», relativamente ridotto e controverso.
Foa sottolinea infatti come la politica ecclesiastica per oltre un millennio si sia fondata sulla visione teologica di Agostino a favore della presenza tra i cristiani degli ebrei in quanto testimoni, pur increduli, della vera fede in Cristo: «Se la giusta scala dei valori viene mantenuta, cioè se l’inferiorità dell’ebreo è salva, la chiesa respinge le violazioni della sua libertà religiosa e protegge la sua presenza».
Non erano dunque considerate lecite le conversioni forzate degli ebrei – imposte invece nella Spagna dell’alto medioevo dalla politica dei re visigoti – e questa rimarrà la linea costante, sostenuta pure da Tommaso d’Aquino.
Rapiti
Una politica volta a favorire le conversioni comunque ci fu, «ma solo con la propaganda e le pressioni ideologiche», tra cui le odiose prediche che gli ebrei erano costretti a subire. E nel 1543 Ignazio di Loyola appoggiò la fondazione a Roma di una «casa dei catecumeni» per accogliere ebrei, musulmani e altri «infedeli» che volevano farsi cristiani.
In questo contesto bambini figli di convertiti venivano «offerti» dai genitori (o talvolta dai nonni), ma erano considerati dalla comunità ebraica «rapiti» e su di loro si aprivano battaglie legali. «Tranne casi drammatici, e limitati, si ha l’impressione – scrive la storica – che la scelta delle autorità fosse quella di molestare il più possibile il mondo ebraico, spaventarlo, creare al suo interno uno stato d’animo d’insicurezza della legge, ma non di mettere in discussione seriamente i confini della legalità».
Un’unica eccezione a questa politica si ebbe nel Portogallo della prima età moderna. Nel 1497 un decreto di re Manuel, su richiesta spagnola, impose la conversione ai bambini ebrei tra i quattro e i 14 anni, senza la possibilità di lasciare il paese: «Mi he’ stato detto da mio padre che io fui tolto dal petto de mia madre et che fui battezato» testimonierà drammaticamente nel 1555 davanti all’Inquisizione veneziana un marrano portoghese.
Ma nel paese la chiesa si oppose con forza, giudicando il decreto contrario ai canoni ecclesiastici, come in effetti era. A conferma di una storia tinta di chiaroscuri che bisogna conoscere in tutte le sue sfumature per non dimenticarla.
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