«Dipingere i migranti che approdano sulle coste europee come una minaccia alla famiglia, alla nazione e al futuro del continente è una trasfigurazione errata. Alla base di alcuni dei fantasmi che alimentano i fascismi della nostra epoca ci sono paure».

Judith Butler, all’Alma Mater Studiorum di Bologna, qualche tempo fa ha chiamato all’appello il linguaggio come cornice di significato politico e strumento per riconoscere e opporsi alle correnti autoassolutorie di matrice reazionaria e agli estremismi di destra che dilagano in Europa e minacciano la libertà dei corpi (di donne e non binary in primis) erodendo diritti riproduttivi e di autodeterminazione.

Come creare forme non violente di resistenza? All’origine del corpo collettivo c’è un’astrazione, un’ipotesi di totalità. È in quella promessa di alleanza e coesione che si genera il pensiero di Judith Butler, condensato nel libro L’alleanza dei corpi (edito in Italia da Edizioni Nottetempo).

Tra le voci che hanno dato fondamentali contributi nei campi del pensiero femminista e post-strutturalista, della teoria queer, della filosofia politica e dell’etica, tra le più rilevanti della nostra epoca, Butler, distinguished professor presso la Graduate School, precedentemente Maxine Elliot professor presso il Department of Comparative Literature and the Program of Critical Theory dell’University of California (Berkeley), da decenni indaga il rapporto singolo/collettività a tutela dei diritti umani.

Nell’ultimo libro Who Is Afraid of Gender? Butler si chiede come i gender studies siano stati strumentalizzati dall’estrema destra per politiche che mettono in discussione la giustizia riproduttiva e privano persone transgender del loro diritto di vivere senza la paura della violenza. Butler analizza la strumentalizzazione dei gender studies per chiedersi quali fazioni o partiti politici li hanno trasfigurati, resi un baluardo, uno spettro contro cui scagliare rabbia e attorno a cui costruire ad hoc manifesti elettorali.

In che modo i passi indietro sul tema dei diritti riproduttivi (accesso all’aborto sicuro) e di autodeterminazione dei corpi perpetrati dall’estrema destra sono il risultato di una forma di controllo politico?

L’estrema destra ha attualmente il potere dello Stato dalla sua parte, il che significa che ha il potere di tagliare i fondi destinati a politiche che contrastino le discriminazioni nei confronti di donne, gay, lesbiche, persone transgender. L’estrema destra ha il potere di erodere diritti fondamentali come quello all’assistenza sanitaria e al riconoscimento legale delle persone transgender. Questa erosione è, a mio avviso, una situazione molto pericolosa. Annullati i diritti di una comunità, si crea il precedente per la negazione dei diritti di altre. Basti pensare alla preoccupante situazione dei migranti in Europa, i loro diritti internazionali sono troppo spesso annullati da politiche locali inerenti ai singoli stati.

Il rito collettivo performativo della protesta non violenta è una risposta alle crisi politiche che stiamo vivendo ora? Quali domande porsi per radicarsi agli ambienti e ai sistemi di interdipendenza ?

Dobbiamo essere sicuri che i nostri metodi riflettano i nostri princìpi e che prefigurino il tipo di mondo che vogliamo costruire insieme.

Qual è il ruolo del corpo nelle manifestazioni di piazza come forma di dissenso e di opposizione non violenta al potere?

Le manifestazioni durante le quali i cittadini si riuniscono per esprimere un punto di vista condiviso implicano apparire in pubblico insieme. Vediamo i singoli corpi ma anche un insieme di corpi, lo spazio pubblico viene occupato da un gruppo e questo è già un atto politico, un’espressione di consenso collettivo. In altre parole, si espone il proprio corpo al pubblico ma anche agli altri membri del corpo collettivo e ciò significa che ci si rende vulnerabili nell’atto di costituire un potere condiviso. Come abbiamo visto nelle manifestazioni studentesche tutto ciò implica anche esporsi al potere, inclusa la violenza della polizia. Il corpo è in gioco, a rischio. Ciò che accade a un corpo accade anche a un altro. Vulnerabilità, parola e potere sono condivisi. La filosofa Adriana Cavarero lo ribadisce nel libro Surging Democracy: Notes on Hannah Arendt’s Political Thought.

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«Un’ideologia gender in quanto tale non esiste. È il fantoccio agitato dai reazionari per attaccare i femminismi, i movimenti Lgbtq+ e i diritti di libertà e uguaglianza». Citando un suo recente libro chi ne ha paura? Chi strumentalizza i gender studies? Perché secondo lei?

È vero, non esiste una “ideologia gender” È un’espressione creata e usata dai gruppi di destra per assimilare un’ampia gamma di questioni che in realtà sono diverse, non sempre correlate. A seconda del punto di vista l’espressione “ideologia gender” viene usata per bollare le voci delle femministe e per schedare le persone non binary comprese le persone transgender.

E ancora per bollare le politiche che invocano la parità economica delle donne, l’educazione sessuale, la genitorialità dei single, la genitorialità di gay e lesbiche, gli studi di genere nelle università, il gay pride, i diritti delle persone transgender all’autodeterminazione e all’assistenza sanitaria, per esempio. Diventano popolari affermazioni errate secondo cui “l’ideologia gender” è terribilmente pericolosa e toglierà alle persone lo status di madre o di padre ma nessuno sostiene questo. Se una persona transgender è in grado di ottenere il riconoscimento legale di ciò che è, questo non toglie i diritti a nessun altro. L’ideologia gender è un esempio di isteria di destra e non ha alcuna attinenza con ciò che esiste nella realtà.

La sua ricerca ha toccato anche i temi della censura, dell’intimidazione e dell’incitamento alla violenza contro le minoranze. Qual è il volto della censura oggi?

Esistono almeno due forme di censura: quella esplicita e quella implicita. Pierre Bourdieu ha individuato questa distinzione anni fa e mi sembra ancora molto utile. Ci sono punti di vista, ci viene detto, che non ci è permesso esprimere in pubblico, ma ce ne sono altri che, se espressi, potrebbero comportare processi di emarginazione e stigmatizzazione. Il primo esempio può provocare una censura legale o istituzionale ma il secondo è più ambiguo. Entrambi instillano paura collettiva. È possibile dissentire e condannare senza censura. Una volta rafforzati i poteri della censura di Stato non sappiamo mai se la nostra stessa parola potrebbe un giorno essere presa di mira. Ecco perché spesso la censura mi preoccupa.

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Cosa ne pensa delle proteste nelle università e dei cortei in solidarietà con il popolo palestinese?

Penso che siano giuste e necessarie. “Genocidio” è un termine che presuppone la distruzione di vite e di infrastrutture di vita. Gli esperti di diritto internazionale che insistono sul fatto che Israele stia compiendo un genocidio contro i palestinesi a Gaza hanno esposto molto bene il caso. L’accusa va presa sul serio.

Qual è il ruolo delle università nel formare la coscienza collettiva e la libertà individuale?

A mio parere le università dovrebbero sostenere un dibattito aperto, difendere il diritto degli studenti e del personale accademico a riunirsi e confrontarsi. Credo che il valore più importante che le università dovrebbero avere sia quello della libertà di espressione e di associazione. Gli accademici dovrebbero anche essere disposti a rimanere costantemente informati sulla storia della Palestina e aperti a nuove prospettive sulla questione.

E la rete e gli ambienti online? Che ruolo hanno? Internet può essere un luogo più democratico, una piazza?

È difficile concepire Internet come uno spazio di libertà, visto il modo in cui funzionano gli algoritmi, i sistemi di sorveglianza globale, di raccolta dei dati e gli episodi di cyberbullismo. Forse dobbiamo trasformare Internet in uno spazio di libertà prima di porci questa domanda. È ovvio, si possono ottenere risorse e informazioni preziose dalla rete ma è preoccupante quando viene identificata come l’unica sfera pubblica che abbiamo. Ne abbiamo bisogno di molte altre.

Proteste contro Judith Butler, in vista di una sua conferenza in Brasile, nel 2017

Citando il titolo di un articolo su di lei uscito sul New Yorker, chi ha paura di Judith Butler secondo lei?

Nel mio ultimo libro Who’s Afraid of Gender? cerco di mantenere un tono pacato di procedere in modo che tutti possano capire. Le persone sono libere di non essere d’accordo con me e lo sono state. Io ho solo punti di vista da offrire e non cerco di imporli a nessuno. Spero vivamente che il giorno in cui sarà facile avere conversazioni aperte su argomenti difficili, persino spaventosi, diventi più vicino.

Quando sarà? Come possiamo nel frattempo lottare per vedere riconosciute alternative al binarismo di genere?

Possiamo includere il riconoscimento di identità di genere e orientamenti sessuali nell’educazione scolastica, nell’assistenza sanitaria e nel sistema giuridico. Perché ciò avvenga con una voce forte e coerente il dibattito deve svolgersi con uno spirito impegnato e uno sguardo aperto.

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