La generazione dei millennial lo ha trasformato in un meme Le tre puntate della docuserie di Simone Manetti per Netflix mette in fila i momenti salienti dell’ascesa, prima della discesa in campo. Tre atti che scandiscono la trasformazione da imprenditore a salvatore della patria, attraverso la santissima trinità del suo impero: la televisione, la pubblicità, la politica.
Sono nata nel 1992. Questo vuol dire che nella mia testa, e in quella dei miei coetanei, Silvio Berlusconi è il presidente del Consiglio che fa i Bunga Bunga e gioca a nascondino con Angela Merkel. La prima campagna elettorale di cui ho memoria è quella del 2001, e da quel momento in poi, esclusa la breve parentesi prodiana, tutti i miei ricordi di infanzia e adolescenza sono solcati dalle gesta politiche del Cavaliere.
Mi sono diplomata nel 2011, ossia quando è caduto il suo quarto governo, e ho trascorso tutti gli anni del liceo a manifestare contro Mariastella Gelmini. Sono stata a Roma al No B Day, dopo una traversata di dieci ore su un pullman notturno che viaggiava dalla Sicilia alla Capitale, ho sfilato col Popolo Viola e, come molti miei coetanei, ho consumato tutti i prodotti culturali dell’antiberlusconismo degli anni Zero.
Sono andata al primo congresso del Pd della mia città, con Walter Veltroni che parlava a una folla entusiasta sulle note di Vasco Rossi, ho visto un centinaio di persone in una piazza che si posizionavano a forma di “V” per il Vaffanculo Day. Ho fatto tutte queste cose mentre la televisione, di nascosto ai miei genitori, era costantemente accesa su Italia 1, aspettando qualche teen drama americano, una puntata dei Simpson o uno sketch di Mai Dire.
Che Silvio Berlusconi fosse molto altro oltre alle faccende con la nipote di Mubarak e i suoi discorsi in inglese maccheronico a Bush l’ho capito anni dopo, quando l’ex presidente del Consiglio era ormai un simulacro del suo passato, troppo innocuo per creare ancora danni, e quando i suoi governi erano un ricordo abbastanza distante da poter essere visti con nostalgica ironia. La mia generazione, quella dei millennial, ha trasformato Berlusconi in un meme – o forse sarebbe meglio dire che la mia generazione ha trasformato tutto in un meme, con la scusa della post-ironia, ma questa è un’altra storia.
Un rapporto complesso
Quello che a me, e a molti altri come me, sfuggiva, mentre vivevamo quel decennio berlusconiano che sembra una sua barzelletta, tragicomica e grottesca, è la genesi del suo potere, ciò che lo rendeva così odiato da una parte, osannato dall’altra, polarizzante prima ancora che questa parola diventasse di moda. Per noi Berlusconi era il premier calato dall’alto, senza passato e auspicabilmente senza futuro; era tutto ciò che conoscevamo, ci scorreva nelle vene, con Canale 5, Dragon Ball, Lucignolo, la Gialappa’s e tutto ciò che consumavamo a fiumi, e non sapevamo neppure perché.
Tutt’oggi mi domando in quanti tra i miei coetanei e tra le generazioni che sono venute dopo siano riusciti a ricostruire la complessità del rapporto tra il nostro paese e la vita di Berlusconi, soprattutto ora che è morto, santificato e digerito. È la domanda che mi sono fatta durante tutte e tre le puntate di Il giovane Berlusconi, docuserie di Simone Manetti uscita su Netflix, che già dal titolo sembra voler accennare con una punta di ironia a quel Giovane Ratzinger di borisiana memoria.
A meno di un anno dalla scomparsa del Cavaliere, a trent’anni esatti dalla nascita di Forza Italia, mettere in fila i momenti salienti dell’ascesa, prima della discesa in campo, non è affatto un’operazione ridondante, nonostante su Berlusconi siano state scritte, dette e urlate tonnellate di parole. Tre atti che scandiscono la trasformazione da imprenditore a salvatore della patria, tre capitoli che racchiudono la santissima trinità dell’impero berlusconiano: la televisione, la pubblicità, la politica.
La nascita della tv privata
Nel primo episodio, Il pizzone, c’è la nascita della televisione privata. Brugherio, Milano 2, TeleMilano, la liberalizzazione dell’etere, Dallas, i Puffi contro il Tg1, Mike Bongiorno, i nastri con 24 ore di palinsesto che viaggiano in tutta Italia per mettere in scena la finta diretta, il tutto incorniciato a regola d’arte da una frase di Vittorio Dotti: «Silvio, cos’è la televisione?», chiede, e Silvio risponde, «La televisione è tutto ciò che sta intorno alla pubblicità». E mi viene da pensare che è la risposta perfetta, anche quarant’anni dopo, quando uno si domanda cosa facciano gli influencer, chi sono i content creator, che succede su internet, dove scrolliamo dalla mattina alla sera e ci immergiamo fino al collo in un oceano di volti e prodotti di cui a stento sappiamo il nome: cosa sono gli smartphone? Tutto ciò che sta intorno alla pubblicità, o agli adv, come si dice oggi.
La rivolta dei Puffi, il secondo episodio, è la nascita del sodalizio tra Berlusconi e la politica, nel nome di Craxi. Se aggiri la legge per mandare in onda in tutta Italia i tuoi programmi e qualcuno ti spegne, piuttosto che cambiare obiettivo fai cambiare la legge. «Berlusconi sei una bella figa!» gli urla un tifoso del Milan, e gli elicotteri che atterrano su Milanello con la cavalcata delle Valchirie fanno il resto del lavoro. Poi, terzo episodio, la discesa in campo, dopo i fallimenti in Francia e la crisi della Standa, i debiti e i buchi: L’Italia è il paese che amo. Mentre l’Italia della prima Repubblica affonda sotto le macerie di Mani Pulite e il gancio politico di Berlusconi scappa ad Hammamet, Forza Italia nasce dal nulla, forgiata dalla campagna marketing dei manager di Publitalia, sfavillante come un programma di Canale 5, azzurra come il cielo, nuova.
E invece Occhetto
Nel 1994 il Pds di Occhetto aveva la strada spianata per arrivare al governo, eppure il vestito marrone del segretario non ha retto il colpo. Mentre la spilletta di Forza Italia brilla sotto i riflettori dello studio di Canale 5, la storia della politica italiana dei successivi trent’anni, quella della comunicazione, dell’immagine, delle personalità e non più dei partiti, si scrive in diretta. Berlusconi tremava per la tensione del principiante negli stacchi pubblicitari di quello scontro moderato da Mentana, dice Achille Occhetto intervistato nella docuserie.
Sarà, io invece ho l’impressione, guardando quelle immagini, che l’unico pensiero di Berlusconi durante quel match fossero i capelli del suo avversario, decisamente più folti dei suoi – ma anche a quello ha poi rimediato, come sappiamo. L’altra sensazione che mi lascia Il giovane Berlusconi è che nonostante la mia formazione mi abbia fatto credere per anni che fosse così, Silvio Berlusconi non è sempre stato quel Berlusconi con cui sono cresciuta, al contrario di quanto potessi pensare da adolescente, mentre vivevo nella speranza che ci fosse un’alternativa ma anche nella rassegnazione del non vederne una valida da nessuna parte. Difficile disinnescare questo pensiero, persino ora che davvero non c’è più.
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