Quando mi sono venute le mestruazioni la prima volta ho pensato: appena sono grande tolgo tutto. Così. Non erano dolorose, non ho nemmeno una storia imbarazzante legata all’evento: ero a casa, tranquilla, e non era troppo presto.

Non vengo da una di quelle case in cui non si possono toccare le piante o ti regalano la torta con scritto «sei diventata signorina» (anche se mia madre usava ancora quest’espressione). In quel momento a 12 anni, quando cioè si hanno davvero le idee chiare, prima di confondersi con l’età adulta, sapevo che non volevo diventare madre mai.

Corpi manipolati

Di essere donna odio moltissime cose, o almeno le odiavo, poi mi sono pacificata (non ho tolto tutto anzi ho congelato gli ovuli, per scrupolo). Ma a volte succede un glitch nel sistema, e questo libro, Cose che non si raccontano, Einaudi, è stato per me quell’elemento di disturbo, mi ha turbata profondamente, e penso che un libro che è in grado di infiltrarsi come un essere vivente in un ecosistema più o meno in equilibrio, di metterti a confronto con delle cose tue non nella forma rassicurante dell’empatia, ma in quella “mostruosa” del rapporto col femminile, sia un libro notevole.

Non è stato il sangue a turbarmi, che pure scorre in abbondanza e a volte diventa mare: «Ho sognato il mare di Sabaudia, ed era tutto rosso. (…) Era un mare infinito di sangue, fino all’orizzonte». Non è stata neanche la descrizione di alcuni interventi medici.

Sia l’uno sia gli altri sono raccontati come dati di fatto, cose che fra donne adulte non facciamo finta che ci sconvolgano. Il nostro corpo pur sano è stato esplorato, manipolato, divaricato, prelevato e penetrato da aghi a sufficienza. Non credo siano queste le cose che non si raccontano a cui fa riferimento il titolo, o non solo.

La contraddizione

La protagonista, la scrittrice Antonella Lattanzi che odia il suo nome e gli amici chiamano Toni, è una donna che proprio alla mia età – a 38 anni – decide di agire sul suo desiderio di fare un figlio. Questo figlio, a provarci “con spensieratezza”, non arriva, nonostante quella costruzione sociale per cui siamo sempre ragazze (e infatti: «sento le voci delle altre donne che mi dicevano ma nooo, sei giovane, hai tutto il tempo davanti, e anche loro le odio»).

Inizia quindi un trattamento di procreazione medico assistita (Pma). E fin qui, tutto bene. Centinaia di donne si rivolgono a quarant’anni ai centri di Pma, e a volte riescono a rimanere incinta (le percentuali non sono incoraggianti, ma dirlo non si può perché poi: e ci volete far fare i figli giovani, ci volete donne fattrici, madri sacrificate. Lo dico senza ironia, la contraddizione che viviamo è reale).

Un thriller naturale

Questa poteva diventare una di quelle tante storie di gravidanze capitate per “allineamento dei pianeti”, perché il Signore ci ha benedetti, senza neanche una menzione alla scienza: le cose che si raccontano poco. Solo che in questa storia niente va bene.

Ma veramente niente, e il fuoco del racconto è sempre così preciso che sembra un romanzo in cui niente va bene perché ha senso che non vada bene, a fini narrativi. Solo che qui un reale senso non c’è, visto che è una vita vera. L’autrice gestisce questa sua materia – gli eventi – in modo naturale ma anche con un forte elemento di thriller, un po’ Stephen King ma soprattutto Shirley Jackson, senza bisogno di fare ricorso al soprannaturale.

“Incinta”

Con la spietatezza che conosco nelle donne e in me stessa, non ho mai davvero empatizzato con questa protagonista. Sarà la misoginia interiorizzata, ma è anche che mi diceva cose di me che non volevo neanche sentire da lontano, e invece di forza, a causa del libro, c’ero già dentro, a sperare che ’sti test smettessero di dare falsi positivi, che la piantassero di dire INCINTA se non era vero e cominciassero a dirlo davvero.

Date un figlio a questa donna, cazzo. La pensavo così, mentre leggevo, ma anche: però lei un figlio non lo vuole davvero.

Il piano politico

Io penso che si debba dimenticare il piano politico per parlare di questo libro, anche se io vedo politica ovunque, in qualsiasi scrittore geniale maschio bianco un po’ porco e acclamato, tanto che mi dicono piantala, goditi questa letteratura.

Qui non ci ho pensato mai, alla politica. Sono stata implacabile («io avrei fatto, io avrei detto»), ma non ho mai, mai pensato: questo dolore non è lecito. Il dolore era sempre anche il mio. Questa credo sia una grandezza. Solo col retropensiero ho registrato che un aborto non è proprio un figlio perso, ma quando qualcuno mi ha fatto notare l’espressione “bambini abortiti”, non corretta per un feto abortito entro i limiti di legge, io sinceramente ho risposto: non l’ho notata.

La paura

L’elemento che fa le veci del soprannaturale in questo libro e che gli conferisce l’elemento di fortissima leggibilità è l’ossessione della protagonista. È quella che la porta avanti e ci porta avanti, sempre più avanti nell’investigare anche noi stesse. Si potrebbe chiamare desiderio, ma io scelgo di no.

E qui veniamo al punto successivo: la paura che questo libro ti inocula come fosse una tossina. Paura di perdere sé stesse, di essere colte da questa malattia che è la voglia improvvisa, ma non voglia, non desiderio, più il bisogno, l’ossessione di fare un figlio. Come fosse una pandemia, che a un certo punto te la prendi e ciao. Quasi ti fai ammazzare per fare un figlio.

Lo Strega lo vincono i maschi

Dentro a questa selva selvaggia, faccia a faccia con te stessa, c’è il grande tema dell’ambizione. La protagonista fa la scrittrice e – in questo caso sì – desidera scrivere, avere successo, essere riconosciuta. Io questa libertà gliel’ho invidiata. Questo crederci tanto.

Una volta avevo messo in un manoscritto di autofiction una protagonista scrittrice. Un editor mi ha detto «la scrittrice non si può sentire. Facciamola pubblicitaria”» Aveva ragione: niente è respingente come una donna che cerca di prendersi sul serio come autrice. Che vuole che il libro vada bene. Che vuole che escano le recensioni e che vada allo Strega e fare presentazioni e interviste, come vuole Antonella Lattanzi.

Si sa che lo Strega lo vincono i maschi. C’è stata la quarta ondata di femminismo sì, ma sui giornali il sabato do uno sguardo alle firme: maschi su maschi, saranno proprio più bravi. Bisogna che dica queste cose, da femminista (ma forse mi toglieranno il badge).

Frustrazioni

Però le cose che ho sentito leggendo, se devo essere sincera, al livello più del sottobosco dei pensieri atroci, erano: ma vuoi pure il libro allo Strega. Pure lo Strega, pensa a me che non invitano manco a Bookpride, manco quando lo organizzano le mie stesse amiche (sì, mollatemi, l’ho pensato).

Le mie frustrazioni si intrecciavano al libro. La frustrazione continua di non aver detto niente, non aver scritto niente – sì, ho scritto, ma volete mettere in confronto a tutto questo scorrere delle mie colleghe nelle Instagram story, che stanno sempre su un palco, o su un giornale.

In confronto, quello che ho fatto è niente, e neanche mi paragono ai maschi, perché pacificarsi con l’essere donna vuol dire anche capire e in qualche misura accettare – pur continuando a lottare – che non siete nella stessa gara, non siete pari.

Fuori dalla dozzina

Insomma, mentre criticavo questa ossessione di fare un figlio che veniva messa in scena nel libro, l’ossessione nel sentire il battito di un feto di poche settimane, e odiare i battiti altrui, io praticamente invidiavo il suo coraggio nel considerarsi soprattutto scrittrice, la sua ambizione ragionata e giusta.

A volte come una comare pensavo: ma che te ne frega del libro, poi mi ricordavo di quanto ho fatto il diavolo a quattro quando il mio libro è uscito con una copertina e un titolo che non mi piacevano, e come sono rimasta mortificata quando un vecchio critico si è preso la briga di scendere dal suo scranno per recensirlo: una palla su cinque, il minimo. Per anni non ho più scritto niente di serio.

Tutti questi livelli diversi di ricezione si sono unificati e pacificati in me quando a un certo punto il libro della protagonista non è entrato nella dozzina (dello Strega). È un momento importante, ho scritto infuriata a una mia amica che già aveva letto: MA NEANCHE LA DOZZINA, CHE CAZZO.

Poi mi sono ricordata. Che possiamo essere senza figli e senza Strega, e avremmo comunque diritto di esistere e vivere una vita felice. Certo, per ora no. Forse, un giorno.

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