- Ce l’ha detto Mercuzio a teatro (smentendo di fatto Romeo) che c’è una differenza sostanziale tra chiacchierare di niente e parlare di sogni. Orson Welles, leggenda vuole, ha battezzato i film “nastri di sogni”.
- Nell’età contemporanea il cinema è diventato da sùbito un contatto diffratto con la realtà. Ce lo racconta e contrario un momento di Intervista col vampiro, la trascrizione sognata da Jordan di un romanzo di Anne Rice.
- Tutti fantasmi di sogni; fatti da altri per noi e pronti per essere regalati al tempo insieme alle loro ferme e digressive ripetizioni. Perché poi, alla fine. Attraverso il cinema viviamo per sogni le vite dei fantasmi che ci hanno preceduto; o che ci proseguiranno. Fantasmi noi stessi per loro.
Ce l’ha detto Mercuzio a teatro (smentendo di fatto Romeo) che c’è una differenza sostanziale tra chiacchierare di niente e parlare di sogni. Di quelle “creature della vana fantasia” che ci infestano le notti dacché il mondo esiste. E quando Bernard Herrmann, che alle storie shakespeariane di Charles Foster Kane aveva regalato la sua musica, si trovò a parlare di Quarto potere definì il film «una sorta di sogno autobiografico di Welles». Quell’Orson Welles che (leggenda vuole) ha battezzato i film “nastri di sogni”.
Mi ha sempre frastornato il fatto che le immagini in movimento con cui sono cresciuto – con cui è vissuto più di un secolo di generazioni di esseri umani – siano una conquista estrema e ultima del mondo; un modo di guardare che per millenni, dai primi ominidi (ma forse anche prima: prima della nostra posizione eretta; prima del passaggio dall’acqua alla terra, quando si era attesa di vita anfibia e minima coalizione cellulare), dalle prime esperienze di esistenza che possiamo soltanto intuire, la percezione delle immagini in movimento reinventate e realisticamente riproducibili (come l’immaginazione del volo di Icaro o la cura sospesa di una camminata sulle acque) era esclusivamente relegata al mondo dei sogni. E per questo non se ne poteva tenere traccia se non nei resoconti orali e scritti che se ne riuscivano a dare, nelle interpretazioni più o meno fantasiose di un Artemidoro. O nella spettacolare capacità ricreativa di un Fidia o di un Caravaggio.
Ma ecco che, a far tempo da quel 28 dicembre 1895 in cui i fratelli August e Louis Lumière proiettarono a un pubblico – e qui è difficilissimo illuminare l’aggettivo giusto: spaesato, spaventato, terrorizzato – incredulo, più che probabilmente, l’uscita di un gruppo di operaie dall’officina fraterna, l’arrivo di un treno sbuffante alla stazione di La Ciotat: da quell’istante nebbioso e di passaggio, il Salon indien du Grand Café, l’intera Boulevard des Capucines sono esplosi di bagliori in chiaroscuro; e di un futuro ricomposto sulla base del presente.
Un momento nel tempo in cui le particole di luce impresse sulla pellicola si sono mosse assumendo forma e figura di vita da potersi raccontare. Da poter conservare per il futuro, appunto. Proprio con un’invenzione che secondo i suoi stessi creatori sembrava non averne.
I sogni della contemporaneità
Poco tempo prima – stando alle cronache, dopo un periodo di gestazione pensierosa, il 24 luglio 1895 – un paio di mesi dopo le riprese della Sortie dei Lumière, il progetto di Sigmund Freud si avvia a diventare quell’Interpretazione dei sogni che, seppure scritta nell’estate del 1899: era già finita in sostanza nel 1896.
I sogni della contemporaneità s’affacciano per la prima volta in modo nuovo nello stesso momento – mese più, mese meno; e a latitudine straordinariamente simile – in cui i sogni possono essere fermati e ripetuti dalle immagini in movimento dei due ingegneri di Besançon.
Per la prima volta, i visi dei padri morti, delle madri ricordate per sbaglio; dei nostri sogni più veri: fissati per sempre in una riproducibilità che – condividendo in questo le vecchiaie umane dacché la vecchiaia esiste: e la decadenza tecnologica delle rughe rugginose del tempo – non potesse comunque essere alterata dalla soggettività di un’impressione.
I sogni e il cinema
I sogni potevano essere ingabbiati dalla luce e rivisti, ogni volta, incasellati nella loro eterna entropia di universo recluso.
(E penso che, da quella fine di secolo di tanti anni fa, per chi vive in una dimensione onirica il cinema è diventato da sùbito un contatto diffratto con la realtà. Ce lo racconta e contrario un momento di Intervista col vampiro, la trascrizione sognata da Jordan di un romanzo di Anne Rice. Quando il vampiro Brad Pitt, dopo secoli di notti, grazie a una “meraviglia meccanica” – il cinema, per l’appunto – può vedere di nuovo il sole: e un numero limitato ma eterno di albe da sognare sullo schermo).
I fantasmi dell’arte, imbrigliati dalla tecnica e dalla volontà creatrice di chi partecipava ai sogni: con il cinema hanno potuto condizionare, in più di un secolo, i nostri stessi sogni. Riscrivendo l’immaginario collettivo.
Che quindi, accanto alle vite quotidiane che viviamo, fatte di gesti e persone care e incontri fortuiti e semplici scherzi del destino: ha potuto riempirsi, insieme con le divagazioni e le digressioni che da millenni ci consegna la letteratura (o la riscrittura immaginata di un dipinto, o di una messa in scena fittizia): di sogni preparati, prescritti che ci indicano la via attraverso cui, se capita, poterci immaginare altre digressioni.
Come fantasmi
Ed ecco il sogno di Anna Magnani che urla la sua morte a un camion di deportati; un volo di scope magiche attraverso il cielo di Milano, la risata liberatoria di James Stewart a Bedford Falls, lo sguardo addolorato di Tom Doniphon quando capisce di aver perso l’amore della sua vita, lo scintillìo negli occhi di Roy pensando ai raggi b che balenano nel buio alla porte di Tannhäuser, Stracci crocifisso accanto all’attore principale dell’esecuzione, lo sguardo di Nino Manfredi quando scopre che Stefania Sandrelli ha chiamato suo figlio come lo zio di sua madre, Cesare che corre contro la morte dopo aver salutato per sempre Michela, Katharine Hepburn irreginata nella sua serra in un’estate trascorsa e improvvisa, il volo abbracciato di Patrick Swayze e di Keanu Reeves in un’improbabile corsa a ritroso accolta dalla gravità terrestre, la classe irripetibile di Peter Venkman di fronte all’ipotesi di un’esplosione di tutte le sue molecole alla velocità della luce, una morte pallida e scacchista che ha forse un debole per la comunità nomade dei girovaghi, la replica di Cornacchia ai Carbonari quando gli chiedono la parola d’ordine, Mario e Saverio che cercano di capire “perché il caminetto non va”, Tarzan e James Bond che corrono sulle rive di un mare scozzese nel XVI secolo, Francesco che parla della bicicletta di Fausto Coppi a suo figlio, Rick Blame che ricorda a una spiazzatissima Ilsa che avranno sempre Parigi, Harry Angel che dà la mano a Louis Cyphre mentre Robert De Niro gliela trattiene; il volo di un Mastroianni brizzolato sulle macchine ferme di un altro sogno, più antico, che forse lo riguarda solo a metà.
Tutti fantasmi di sogni; fatti da altri per noi e pronti per essere regalati al tempo insieme alle loro ferme e digressive ripetizioni. Perché poi, alla fine. Attraverso il cinema viviamo per sogni le vite dei fantasmi che ci hanno preceduto; o che ci proseguiranno. Fantasmi noi stessi per loro.
Parliamo di Sogni. Il cinema: 127 anni di storie per immagini è il titolo dell’incontro che lo scrittore e sceneggiatore Giordano Meacci terrà sabato 28 maggio a Palazzo dei Vescovi, nell’ambito della XIII edizione di Dialoghi di Pistoia, festival di antropologia che si svolgerà dal 27 al 29 maggio, ideato e diretto da Giulia Cogoli e promosso dalla Fondazione cassa di risparmio di Pistoia e Pescia e dal comune di Pistoia.
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